Sport

Bolsonaro, anche un gol porta voti. E Socrates si rivolta nella tomba

Il calcio è di destra, di sinistra o è populista? Beh, è soprattutto popolare. Ed è per questo che fa gola ai politici, ai demagoghi, ai “figli del secolo”, come Mussolini: il quale propugnò pallone e moschetto per far propaganda al fascismo, sfruttando l’eccezionale congiuntura di due Coppe del Mondo vinte, nel 1934 e nel 1938, con gli azzurri trionfatori a braccio teso e talvolta schierati in divisa nera. Diciamo, comunque, che la domanda – mai banale – è ricorrente. E sempre attuale. Purtroppo. Non scordiamoci Berlusconi, che trasformò il Milan in una rampa di lancio elettorale, salvo poi disfarsene quando non gli serviva più.

Riscoprire infatti che “lo sport più bello del mondo” è anche quello più strumentalizzato politicamente non è poi così originale: constatarne la dipendenza e smascherarne gli occulti fini è in fondo un esercizio analitico che ha prodotto studi e saggi a iosa. Cliccate “calcio+politica”, Google offre 195milioni di risultati, Wikipedia ha la voce “Tifo calcistico e politica” in cui evidenzia le connessioni tra tifoserie e politica, assai rilevante in alcuni club, la politica si intreccia da sempre con il football. Insomma, due fenomeni che si annodano ineluttabilmente. Così viene ingenuamente da chiedersi: “Ma allora, il calcio?”. Ebbene, sì, il calcio è mica solo un gioco e basta: è politica, è economia, è società, è gestione del tempo libero. Ossia è arma di illusioni e aggressioni di massa. La guerra nei Balcani degli anni Novanta fu scatenata dagli ultras di Zagabria e Belgrado, tanto per rinfrescare la memoria: successe alla periferia dei nostri confini. Il che non ci conforta, questo è poco ma sicuro. Senza tralasciare il dettaglio non secondario del gol. Perché non sai più se il gol per il quale hai esultato da tifoso è un gol o qualcosa di più e di diverso, un acceleratore di consensi e di voti, un comizio a pallonate, un tiro pro o contro la maggioranza, una rete per l’indipendenza (vedi il Barcellona) o un punto in più nei sondaggi.

Di recente il calcio sembra essere entrato pure nell’orbita del sovranismo come si è visto agli ultimi Mondiali in Putilandia, dove la nazionale russa coi suoi inaspettati successi ha scatenato uno tsunami d’orgoglio pannazionalista, da Kaliningrad all’estremo oriente della Kamciatka, gratificando così gli sforzi di Putin, il presidente (da una vita, ormai) che vuole riportare la Russia ai suoi fasti imperiali, considerato il patron oltre che il padrone dell’evento, una lunghissima e tollerata festa popolare (peraltro organizzata in maniera impeccabile). Ma è dal Brasile che le cronache del futbol rivelano lo stretto legame con la propaganda populista: la connessione diretta fra il neo presidente Jair (già il nome ci ricorda qualcosa) Bolsonaro e il calcio verdeoro, i colori della divisa di Neymar e compagni. Lo spiega Paolo Demuru, professore associato in semiotica e teoria della comunicazione presso l’Università Paulista di San Paolo, autore del saggio Essere in gioco. Calcio e cultura tra Brasile e Italia (Bononia University Press, 2014): Bolsonaro, conferma Demuru, ispira e fortifica i valori attuali di gran parte del calcio brasileiro. Valori che si appoggiano su due robusti pilastri: il fanatismo religioso e il fanatismo patriottico. Demuru cita il centrocampista Felipe Melo che in Bahia-Palmeiras (19 settembre 2018) aveva segnato un gol e l’aveva dedicato enfaticamente a Dio, alla famiglia. Ma anche a Bolsonaro, “nostro futuro presidente”. Come se da noi Insigne esultasse per la famiglia (e ci può stare), per San Gennaro e Di Maio, che è delle sue parti.

Immagino come si rivolti nella tomba il dottor Socrates, scomparso sette anni fa, grande calciatore e grandissimo uomo (giocò pure nella Fiorentina, parlava un italiano perfetto), medico da 110 e lode e filosofo, stella polare del Corinthians di San Paolo in campo e soprattutto fuori, dove giocatori, tifosi, tecnici parlavano di democrazia e non di populismo; dove si contestava – me lo ricordò durante un’intervista che gli feci a Guadalajara nel 1986, ai Mondiali del Messico (stavo nello stesso albergo dei brasiliani, trasformato in una torcida permanente) – l’organizzazione calcistica brasiliana (“per intenderci, è molto feudale, opprime i calciatori, cerca di condizionarli, impone come vivere, pensare, addirittura come vestirsi”) e si mise in piedi una sorta di esperimento social-sportivo, “abbiamo realizzato una sorta di democrazia che i media brasiliani battezzarono subito ‘democrazia corinthiana’, per tentare di vivere in modo diverso la nostra professionalità, partendo dal presupposto che i doveri erano pari ai diritti. Lavorare senza la libertà è restare soli contro tutti, in eterna competizione. Noi abbiamo capito che potevamo avere voce in capitolo, quanto i tecnici e i dirigenti della società: siamo arrivati a decidere assieme, votando. La maggioranza decideva. Cercavamo così di responsabilizzarci, in un contesto di elasticità e di buon senso, non come in una caserma”.

Socrates inorridirebbe a sentire giocatori come Rivaldo dire “Felice è la nazione il cui Dio è il Signore (…) Auguri, presidente Bolsonaro, che Dio benedica il suo mandato”. O Edmundo, che ripete la formula di Rivaldo con la variante “benedici, Signore, il nostro Brasile”. O Neymar padre, influente procuratore del calciatore più pagato della storia, che conciona: “Il nostro Paese ha un nuovo presidente. Che Dio lo illumini e lo guidi verso un governo che porti progresso al nostro Paese”. E ancora, Dagoberto: “Adesso c’è finalmente qualcuno che mi rappresenta. Il Brasile sopra ogni cosa. Dio sopra tutti. Dio è fedele e giusto”. Persino il funambolico e cosmopolita Ronaldinho ha ripreso lo slogan della campagna elettorale di Bolsonaro (“Il Brasile sopra ogni cosa. Dio sopra tutti”) perché in cuor suo, ha confessato, desidera un “Brasile migliore”.

Bisogna dire che fin dalle loro indipendenze, i paesi dell’America Latina hanno visto un susseguirsi di governi d’ogni tendenza: di destra, di sinistra, di centro, conservatori, progressisti. Tutti, comunque, con un connotato in comune: essere populisti. Anzi, per alcuni politologi, il continente latino “è” la terra elettiva del populismo (sappiamo che il termine è controverso, spesso è usato in senso peggiorativo, mettendo insieme realtà diverse, eterogenee). In Brasile, sotto questo archetipo, va certamente inserito Getulio Vargas, che governò dal 1930 al 1945. Precedette il fenomeno di Juan Domingo Peron (1946-1955). Oscillando da un corporativismo ereditato dal fascismo ai movimenti laburisti vicini al socialismo, tutti i populismi dell’America Latina hanno pescato i consensi tra le classi popolari, spesso urbane, e spesso tra i lavoratori dei settori economici più modernizzati, la cui mobilitazione andava oltre il voto. Gente che apprezzava una leadership carismatica, una simile ideologia improntata al nazionalismo baluardo dell’indipendenza nazionale contro l’imperialismo, senza però confondersi con l’internazionalismo della sinistra tradizionale.

Il populismo viene visto come soluzione alla povertà, con l’intervento decisivo dello Stato. Superati gli anni delle dittature militari, eredi delle crisi populiste, ecco sorgere governi che possiamo definire “neo-populisti” (Menem in Argentina, Fujimori in Perù, Fernando Collor de Mello in Brasile, Bucaram nell’Ecuador, Uribe in Colombia): stessa strategia politica fondata sul carisma del leader e la polarizzazione della società ma con ancora degli equilibri socio-economici legati al neoliberismo. In breve, negli ultimi anni anche questo populismo subisce una radicale trasformazione: dopo la parentesi dei populismi di sinistra (Chavez in Venezuela, Correa in Ecuador, i Kirschner in Argentina, Lula in Brasile) le cui politiche erano alimentate dalla crisi economica (crollo del potere d’acquisto, aumento del costo delle materie prime, diversificazione dei partner commerciali: visto il progressivo disinteresse degli Stati Uniti cresce il peso della Cina), questi governi esauriscono ogni spinta. Il loro ciclo è finito. Tornano al potere delle coalizioni conservatrici, l’estrema destra conquista il Brasile. Il calcio si adegua.

Non tutti, nel mondo degli stadi brasiliani, accettano questa svolta. Non chi aveva appoggiato Fernando Haddad, il rivale di Bolsonaro, candidato del Partido dos Trabalhadores di Lula: 69 tifoserie organizzate, capeggiate dalla celebre Gavioes da Fiel, dello Sport Club Corinthians Paulista, una volta tempio dei fan di Socrates: “Tu che sei socio della Gavioes da Fiel, conosci la storia della tua torcida? Sai che nell’anno della nostra fondazione, nel 1969, vivevamo in piena dittatura militare? (…) Sai che i nostri fondatori hanno subito ritorsioni per aver alzato la loro bandiera in nome della democrazia e dei diritti del popolo? (…) Siamo una tifoseria che difende i diritti del popolo e non possiamo permettere che il nostro maggior rappresentante sia contro di noi e contro tutto ciò per cui lottiamo”. Così si è espresso Rodrigo Gonzalez Tapia (detto Digao), presidente della torcida paulista, ricordando ai soci che intendevano votare Bolsonero, quali fossero i valori fondanti della Gavioes da Fiel, primi fra tutti l’impegno civile, la resistenza all’autoritarismo, dentro e fuori il campo da gioco.

Scrive il professor Demuru che i tempi sono cambiati, che Bolsonero ha goduto dell’appoggio della Chiesa evangelica (all’evangelismo si è convertito di recente), che la sua candidatura è stata sostenuta da Edir Macedo, capo della Igreja Universal (la Chiesa Universale) e padrone del Grupo record, potente azienda di telecomunicazioni (ne fa parte Tv Record, terza rete brasiliana). Altre associazioni religiose l’hanno sostenuto. Aggiunge Demuru, grande esperto della materia, che secondo i bolsonari “nel calcio come nella politica, tutto è parte di un disegno superiore”. L’impeachment di Dilma, l’attentato a Bolsonaro poche settimane prima del voto, la sconfitta della sinistra, un gol segnato, uno subito, persino l’umiliante 7 a 1 buscato dalla Germania nella semifinale del Mondiale 2014 in casa (!), poi l’esonero del cittì Dunga, i successi del nuovo cittì Tite, l’eliminazione in Russia per opera del Belgio, ecco, tutto fa parte del grande disegno di Dio. E del suo servitore Bolsonaro.