“Presto la gente non sarà più in grado di vedere film come Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos o di leggere Henry James perché non riuscirà a concentrarsi quanto basta per passare da una scena o una frase interminabile alla scena o frase successiva. Il momento in cui forse sarei stato in grado di leggere l’ultimo Henry James è passato, e poiché non ho letto l’ultimo Henry James a tempo debito, non sono nella posizione di dire quale danno abbia subito la mia sensibilità. Però so che se intorno ai vent’anni non avessi visto Stalker, la mia comprensione del mondo sarebbe stata radicalmente ridotta”.
Analizzando Stalker, il film di Andrej Tarkovskij, Geoff Dyer in Zona. Un libro su un film su un viaggio verso una stanza (traduzione di Katia Bagnoli, Il Saggiatore) procede su un duplice binario: quello della critica all’opera d’arte e quello delle analogie tra essa e la propria vita. Il set estone, la colonna sonora, gli scenari da “acciaieria sovietica”, i personaggi torbidi ed enigmatici si tramutano nell’infanzia a Cheltenham, nei rapporti con il padre e nell’adolescenza lisergica e ribelle dell’Inghilterra degli anni Ottanta. Autoironico, sagace, in grado di trasformare lo specchio della narrazione in un caleidoscopio di riflessioni e aneddoti sul cinema, la letteratura e la storia – con l’utilizzo delle note a margine tanto care a David Foster Wallace – l’autore britannico tesse una non-trama affascinante e coraggiosa annullando, di fatto, il labile confine tra realtà e finzione e tra vita vissuta e arte.
Geoff Dyer scrive un libro bello e visionario sull’importanza e il magnetismo della noia che, se sfruttata da esseri pensanti, può portare a opere di indiscutibile valore intellettuale e morale, capaci di far riflettere sulle tecniche di dilatazione e sintesi, in un testo ma anche nell’esistenza quotidiana di ognuno di noi.
“Ether cammina lenta lungo il viale in cui hanno fatto il colpo. Ether è cattiva e le piace esserlo. Il suo problema è che è difficile che si senta veramente bene. Durante il colpo era tutto sublime, come certe copertine di riviste che la vedevano protagonista, benché lei odiasse quel contesto patinato. Ma a vedersi sui mass media godeva come quando il sangue cola sul sesso e non è sadomaso. Semmai il contrario, perché certe ferite sono piacevoli se si creano da sole. Rideva del fatto di avere letteralmente spaccato il cranio di uno stronzo con una semplicissima biglia d’acciaio. Perché non uccidere? Chi l’ha mai detto che non si può? Il veto all’uccidere è di natura culturale. Il gatto più docile uccide, così anche una rondine o una marmotta o l’uomo che è in guerra. Già, perché in guerra si può uccidere, anzi si deve. È obbligatorio e devi obbedire agli ordini”.
Di tutt’altra stanza parla Lo sponsor, di Filippo Landini (BAT Edizioni, attualmente leggibile gratuitamente in formato eBook). È una stanza cupa quella del Jarry Live Show, un luogo di segregazione. Un industriale viene rapito in pieno giorno in una metropoli europea contemporanea. I sequestratori lo filmano, giorno dopo giorno, facendogli assumere lsd. Il processo di disfacimento morale e fisico viene filmato e messo in onda. Il sistema diviene vittima di se stesso. Il pubblico simpatizza con l’industriale allucinato o, al contrario, parteggia per i terroristi.
Tra la poetica della Beat Generation, la trilogia americana di James Ellroy, le interviste ai membri delle Raf e la serie TV Black Mirror, Filippo Landini scrive un romanzo originale e intelligente. Al contrario di molti grotteschi esercizi di stile a cui siamo ormai abituati, ne Lo sponsor non c’è spazio per il buonismo e il perdono. Un manifesto estremo sulla nostra malridotta società. Una storia senza esclusione di colpi, dal ritmo cinematografico e i colori visionari di un’allucinazione senza lieto fine. O forse sì, dipende per chi si fa il tifo tra cattivi e cattivi.