Quarant’anni fa, in un’Italia ancora sconvolta dal caso Moro, moriva Giorgio De Chirico. Basterebbe questa banale notazione di sincronia per far capire che la sua lunghissima vita (era nato esattamente 90 anni prima, nel 1888) ne aveva fatto un sopravvissuto: un revenant, quasi. Un fantasma. Qualcuno che torna dal passato come le figure inquietanti dei suoi quadri. Amedeo Modigliani, per dire, aveva solo quattro anni più di lui, ma morì 58 anni prima, trasfigurandosi per sempre nel mito. Invece De Chirico ebbe il dono di una vita interminabile: dono pagato, sul piano artistico, attraverso un’interminabile produzione che oggi rischia di rammentare al grande pubblico più le questioni di falsi, liti in tribunale e polemiche varie che non la grandezza degli anni folgoranti della metafisica. Anni che portarono De Chirico ad essere l’artista italiano più influente: quasi venerato da pittori più giovani come René Magritte.
E così, per ricordarlo, si può andare all’indietro: fino al momento in cui tutto cominciò. Un tardo pomeriggio d’ottobre, a Firenze, in piazza Santa Croce: qui, un giovane pittore ancora ignoto e tutto immerso nelle fantasie classiche legate alla Grecia da cui proveniva la sua famiglia, sostò su una panca di pietra, a riposarsi per i postumi d’una gastrite, a contemplare la chiesa carica d’arte e di storia, a godere la luce calda dell’ultimo lembo d’estate. Una situazione quasi decadente, alla Guido Gozzano. E invece, tutto il contrario: Giorgio ha un capogiro, e, letteralmente in trance, ha una visione, o meglio un’allucinazione.
La tela in cui provò a fissare ciò che credette di vedere (L’enigma di un pomeriggio d’autunno) fu esposta a Parigi nel 1912 e Giorgio la commentò ricordando quegli attimi in Santa Croce: “Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mente”. Era nata la pittura che De Chirico stesso chiamò metafisica: una pittura capace di andare oltre le cose e – senza ritrarre la figura umana e proprio attraverso una rappresentazione estraniante delle cose – capace di parlare di ciò che di più profondo agita la natura umana. Una pittura in cui le nostre città storiche sono trasformate in palcoscenici teatrali in cui statue antiche in frammenti e manichini mutili parlano di un’assenza.
Assenza di vita, di umanità, di futuro. Difficile non essere insieme attratti e angosciati da quest’arte enigmatica, eppure chiarissima: ed è dall’intuizione di quel pomeriggio che trassero ispirazione e alimento grandi artisti come Carlo Carrà o Filippo De Pisis, per non parlare di un gigante come Giorgio Morandi, le cui nature morte furono capaci di creare un’irripetibile metafisica degli oggetti, attraverso una pittura degna di Chardin.
Così il nostro debito con De Chirico è davvero grande. E oggi, per ricordarlo, andrò a sedermi su una panca in piazza Santa Croce: chiedendomi se, per avventura, sarà proprio quella dove il giovane Giorgio ebbe la sua visione. E soprattutto cercando di recuperare almeno una particella del dono che quella visione dischiuse a De Chirico: quello di vedere con occhi nuovi la realtà di ogni giorno. Come se ogni oggetto (anche i più vili o banali), ogni edificio, ogni ombra che incontriamo camminando nelle nostre città dense di storia e di futuro contenesse una porta segreta capace di farci sprofondare nel più segreto recesso della nostra anima. Fare nuove tutte le cose, fare nuovo il nostro stupore quotidiano di fronte al mistero della nostra stessa vita: è questo l’incanto che dobbiamo alla poesia visiva di Giorgio De Chirico.