“Tu non sei razzista, sei stronzo”. Il video in cui Maria Rosaria Coppola, una costumista Rai di 62 anni, ha messo ko un giovane “sovranista” che insultava un immigrato è diventato virale, ma giustamente quelli di Fanpage si sono chiesti come mai almeno dieci persone presenti alla scena non siano riuscite a prendere la parola. “Sono ignavi? Sono vigliacchi? – scrivono – chiunque di noi si è chiesto: se fossi stato lì seduto, come avrei reagito? Avrei preso la parola o sarei stato zitto?”.
Proprio la capacità o meno di prendere la parola, anche in contesti molto più quotidiani come un consiglio comunale o un vertice aziendale, è al centro delle ricerche di Francesca Gualandri (1967), una musicologa esperta di retorica del gesto che da anni si occupa di pedagogia vocale, tenendo corsi di public speaking e voice coaching sia in privato che collaborando con l’Università Cattolica di Milano. Un suo articolo scritto con il professor Olivier Béguin racconta come i seminari di voice coaching siano nati proprio per aiutare gli studenti di Scienze linguistiche e del master in Risorse umane a superare la difficoltà di “prendere la parola”, ricorrendo alle tecniche dell’Actio, quella parte della retorica che, secondo Quintiliano, combinando voce e gesto forgiava l’oratore.
“Riconoscendo le difficoltà degli studenti a presentare un discorso, a parlare di fronte a un pubblico – scrivono Gualandri e Béguin – abbiamo cercato di creare un contesto che consentisse loro di superarle o di ridurle. Raramente i nostri studenti hanno l’opportunità di parlare in pubblico: a volte sono a disagio durante un esame orale. Obiettivo di questi workshop è aiutarli a gestire la paura del palcoscenico, migliorare la qualità della voce parlata e la loro pronuncia. Il problema più diffuso tra i nostri studenti è la difficoltà a mobilitare la propria energia al servizio della voce, problema dovuto a due ragioni. La prima, psicologica, relativa al ruolo dello studente; la seconda di natura tecnico-fisiologica. Il contesto universitario a volte tende a favorire un certo profilo di studente: serio, discreto, più concentrato sull’ascolto che sull’espressione personale. Queste ‘qualità’, reiterate nel corso degli anni, non preparano sufficientemente lo studente all’ingresso nella vita professionale dove spesso sono richieste altre qualità, specialmente a chi mira a occupare una posizione di responsabilità: competitività, fiducia in se stessi, autorità, imprenditorialità, etc. Ci sono poi le difficoltà di natura tecnico-fisiologica. Quando si avverte la paura del palcoscenico, una delle reazioni involontarie più comuni è quella di accelerare. I gesti, la respirazione e la parola diventano più veloci e a scatti. Lo studente sembra avere solo un desiderio: finire velocemente e tornare al suo posto”.
Ma perché è ancora così difficile, nell’era dei social network e della comunicazione h24, “prendere la parola”? “Per prendere la parola devi essere in contatto con quello che hai dentro – risponde Francesca: non ci riuscirai mai se ti blindi, se non respiri, se rimuovi le emozioni. Se ti ‘schermi’ di fronte a tutto è molto difficile esprimersi. Il problema delle nuove generazioni è che l’educazione le gonfia di informazioni che non sanno gestire, come oche da ingozzare. Non ti viene chiesto di sviluppare un pensiero critico. Al massimo ti viene data la parola solo per chiederti di fare un report su quello che hai ricevuto. È un’educazione che non prepara assolutamente a prendere la parola e che fa sì che tu ti senta sempre inadeguato. Da quando nasci a quando muori, ti si insegna a essere un bravo suddito. Anche la lezione è ‘frontale’: non ci sono momenti in cui lo studente può interagire. Al limite può dire ‘Scusi, non ho capito (io pirla…)’. La maggior parte degli studenti cerca di avere un profilo basso, di non farsi notare. L’ideale è l’invisibilità. Io vedo sempre che tutti, quando devono parlare in pubblico, hanno una paura terribile del giudizio degli altri: cosa penseranno di me? Gli piacerò? Non gli piacerò? Saranno ostili? Saranno accoglienti? Così arrivano completamente contratti prima ancora di sentire l’ambiente, il pubblico e se arrivi con l’atteggiamento del ‘chiodo’ di certo troverai il tuo ‘martello’ , mentre se ‘senti’ com’è la sala, se rischi, se ti esponi, avrai un’altra risposta”.
Il problema è che, a monte, c’è l’idea che essere in pubblico voglia dire “essere dato in pasto” – veicolata, secondo Gualandri, soprattutto dai reality: dal Gf a Masterchef, in cui essere in pubblico vuol dire essere nell’arena. “Questa dimensione gladiatoria, per cui esporsi vuol dire essere linciato, ha contagiato anche i talk-show. Basti pensare al ritmo, ai dialoghi aggressivi, banali, costruiti in modo che anche chi è competente non abbia assolutamente lo spazio per argomentare. Alcuni miei allievi che studiano canto vorrebbero andare ad Amici o a X-Factor, ma per cosa? Se ti forgiano per vincere ad Amici, per esempio, lo fanno per farti entrare in uno standard che rende tutti uguali. Non è un caso che quelli che emergono veramente nella musica siano più spesso degli outsider: penso per esempio a un Ed Sheeran“.