Prima edizione del Bit (Business Index on Transparency) svolto attraverso un sondaggio tra 50 aziende italiane, leader in dieci settori maggiormente esposti al rischio corruzione. I risultati si sono dimostrati paradossali per la stessa organizzazione: calcio, moda e settore agroalimentare hanno conseguito risultati molto peggiori di settori tradizionalmente più esposti
Calcio, moda e cibo. Che rapporto hanno con la politica e quanto pesa la corruzione in questi settori? Tanto. Talmente tanto che, sebbene siano i settori più rappresentativi d’Italia, risultano poco inclini all’applicazione delle norme sulla trasparenza e sull’anticorruzione. Il dato emerge dalla prima edizione del Bit (Business Index on Transparency) presentato da Transparency International Italia.
Ne è venuto fuori un’inversione di tendenza che ha meravigliato perfino i membri dell’associazione. I settori dell’energia (74,6%) e della finanza (62,6%), che di natura sembrano più a rischio per il volume di denaro che circola, sono risultati più rispettosi delle norme e hanno siti molto più trasparenti. Così come hanno fatto le aziende di telecomunicazioni e le partecipate dello Stato.
Di contro, calcio, moda e settore agroalimentare rappresentato la sorpresa in negativo della ricerca con rispettivamente il 30,6%, 36% e 34,4%. “Basti pensare che solo negli ultimi 15 anni, sono fallite 146 squadre di calcio e – dichiara Davide Del Monte, executive director di Transparency Italia – la cronaca giudiziaria è piena di scandali sul riciclaggio”. Cinque sono state le società sportive interpellate: Inter, Milan, Juventus, Roma e Napoli. Per alcune di essere è risultato particolarmente difficile anche solo individuare il responsabile delle misure anticorruzione. Il Made in Italy, invece, ha puntato sì sulla trasparenza ma solo su determinati aspetti. Così come nel settore agroalimentare, anche la moda italiana ha pensato di evidenziare il rispetto dell’ambiente, la sostenibilità della filiera e l’efficienza energetica. Tutti aspetti che poco hanno a che fare con la corruzione.
“Sicuramente gli scarsi punteggi in questi settori sono dovuti anche alla carenza, se non assenza, di leggi e normative che obblighino le aziende a pubblicare informazioni relative sia al finanziamento che alle attività di trasparenza di interessi – ha commentato il presidente Virgilio Carnevali – per questo è importante che il governo e il parlamento facciano il loro ruolo e prevedano un maggiore flusso di informazioni pubbliche sui rapporti e i soldi che girano tra mondo del business e classe politica”. A un anno dall’entrata in vigore della legge sul whistleblowing (che garantisce più tutele a chi denuncia episodi di corruzione in azienda), gli effetti della norma non sono del tutto negativi. “Qualche passo in più è stato fatto, soprattutto in ambito pubblico” ammette l’avvocato Iole Savini. Eppure c’è ancora il solito buco nero da riempire: il finanziamento ai partiti. La metà delle aziende sottoposte al questionario ha dichiarato di non aver mai sovvenzionato alcuna compagine politica. L’altra metà, invece, non ne fa assolutamente menzione nei propri siti web.