Cinema

Il vizio della speranza, una madonna per la rigenerazione umana. Il regista De Angelis: “Il mio è cinema militante che prende posizione”

Esce in sala il quarto lungometraggio del regista campano Edoardo De Angelis con protagonista la moglie Pina Turco. Un “film in forma di preghiera” ambientato sull’estuario del Volturno, tra nebbie, prostitute, donne potenti, deboli e ribelli. “L’approccio realistico è nel punto di partenza, poi trasfiguro tutto in una forma distaccata dal verismo. Mi interrogo sempre su come mostrare l’aspetto magico della realtà”. Il precedente film Indivisibili lodato da Sorrentino, legame forte con la Campania come set (“non sopporto il termine location, gli autori devono essere liberi di far vivere le storie nelle terre a cui appartengono”) e un auspicio per il futuro con Netflix: “Non dobbiamo fare i nostalgici del tempo che fu. Guardiamo avanti, anche se la sala cinematografica non morirà mai”

di Davide Turrini

“Lungo il fiume scorre il tempo di Maria, il cappuccio sulla testa e il passo risoluto. Un’esistenza trascorsa un giorno alla volta, senza sogni né desideri, a prendersi cura di sua madre e al servizio di una madame ingioiellata. Insieme al suo pitbull dagli occhi coraggiosi Maria traghetta sul fiume donne incinte, in quello che sembra un purgatorio senza fine. È proprio a questa donna che la speranza un giorno tornerà a far visita, nella sua forma più ancestrale e potente, miracolosa come la vita stessa. Perché restare umani è da sempre la più grande delle rivoluzioni”. Con una sinossi del genere Il vizio della speranza, il quarto film di Edoardo De Angelis, dal 22 novembre nelle sale italiane, dovrebbe sbancare perlomeno il botteghino della curiosità. Film creativamente fuori dai codici genere, lontanissimo da tinelli e accenti comici romani, il quarto film di Edoardo De Angelis (Indivisibili, Mozzarella stories) è un’opera d’arte esteticamente originale e metaforicamente matura che non soffre il confronto con grandi titoli art house internazionali. In scena, sul cupo e annerito estuario del Volturno, senza troppi preamboli di scrittura, emerge la protagonista assoluta: Maria, ovvero la moglie di De Angelis, Pina Turco (Gomorra, in tv), salvatrice di anime, dapprima inflessibile aguzzina di prostitute nigeriane poi angelo ribelle in una terra abbandonata sull’orlo del conflitto umano, sospesa in una dimensione visiva oltre i confini del reale. “Il ventre di Maria è come il letto del fiume, un ricettacolo di oggetti che il fiume ha portato a valle. Oggetti svuotati del loro significato che in questo film vengono ripescati e riempiti di un nuovo significato”, spiega De Angelis al FQMagazine. 

Il tuo cinema ha come l’urgenza di ricostruire ogni angolo e frammento di scena per abbandonare quel realismo fin troppo legato alla cultura cinematografica italiana…
“L’approccio realistico per me è nel punto di partenza, nella fase di ricerca delle informazioni, dell’incontro con le persone e delle interviste, dell’ascolto degli elementi della natura. Poi però tutto questo si deve trasfigurare in una forma che non abbia il timore di distaccarsi dal mero verismo. Una forma rispettosa della realtà perché nella realtà se la guardiamo con attenzione c’è una magia. La vita stessa è un evento del tutto magico. Questa meraviglia che deriva dall’osservazione della realtà richiede una ricerca che non finisce mai e il linguaggio giusto per trasmetterla. Mi interrogo sempre su come mostrare l’aspetto magico della realtà”.

La scelta della Turco come protagonista: ci sono mai stati ripensamenti o tentennamenti?
“A volte le ho fatto credere che fosse in discussione la sua partecipazione. Questo personaggio perà nasce da Pina, e Pina lo vivifica. È stata l’occasione per me di sondare territori umani inaccessibili ai più. Qualcosa che si può fare solo quando hai un rapporto molto intimo con una persona. Dirigere una persona che ami ti dà accesso a quei territori. Territori che persona può nascondere spesso perfino a sé stessa, ma che è disposta a mostrarli a chi ama. Non sono mai riuscito a vivere l’esperienza cinematografica staccata da quella umana. Anche se seguo forme che si distaccano da verismo, cerco sempre di raccontare una verità sentimentale.

Ne Il vizio della sperenza non si vedono mai degli uomini. Ci sono solo donne che accompagnano, in positivo o in negativo, la protagonista…
“All’inizio c’era un personaggio maschile che aveva lo stesso peso della protagonista femminile. In fase di sviluppo mi sono poi trovato davanti a questo dilemma e ho dovuto decidere di chi fosse la storia che volevo raccontare. Al di là del fatto che oggi è di moda, la questione è molto fastidiosa se posta sul piano meramente numerico. A me viene naturale immaginare personaggi  al femminile, forse perché sono cresciuto in mezzo a donne, e loro sono state il filtro tra me e il mondo. Sono state il mio laboratorio mio di umanità. Mi piace indagare questo universo pieno di sorprese e di  repentine deviazioni del percorso. Non è detto che debba sempre essere così, anche l’universo maschile è ricchissimo. Maria, oltretutto, è un essere umano che porta dentro di sé segni di femminilità e mascolinità: è generatrice di qualcosa di nuovo, lei è il ventre del Natale. Non ricorda l’evento meramente ginecologico, ma la rigenerazione dell’umanità”.

Giri tutti i tuoi film in Campania, il legame con la tua terra è palese…
“Non amo la parola location, non mi piace pensare all’idea di scrivere una storia e poi cercare dove ambientarla, magari migrando verso regioni con Film Commission più ricche. È una prassi che detesto: una terra genera delle storie e le deve anche ospitare. Il luogo nel cinema non è ininfluente, il luogo ha inciso la sua storia su di sé, sulla sua geografia, sui suoi smottamenti. Non importa se siamo poveri, anche se adesso la Regione Campania si è dotata di un finanziamento che però si è scandalosamente inceppato. Gli autori dovrebbero sentirsi liberi di portare le loro storie nelle terre a cui appartengono a prescindere delle agevolazioni delle Film Commission più ricche. La scelta deve essere libera per autori e produzioni”.

Paolo Sorrentino si arrabbiò molto quando Indivisibili non venne candidato come film italiano per rappresentarci agli Oscar come miglior film strani
“Avere la stima di un autore che considero un maestro è motivo di lusinga. In più provo ammirazione per chi ha il coraggio di prendere una posizione, il coraggio di esprimere un’opinione anche se in contrasto con le opinioni altrui. Provo grande insofferenza  nei confronti della gelatina dell’opinione comune sempre un po’ ammorbidita. In quella circostanza l’autore ha mostrato un lato umano di sé che ha fatto aumentare stima nei miei confronti. Sarebbe stato lo stesso se si fosse esposto a favore di un altro film. L’agone è qualcosa che mi riporta alla vita, mi piace la lotta, non mi piace la lotta nascosta, mi fa paura, mi ricorda qualcosa che striscia, mentre lotta a viso aperto suscita in me sempre il massimo rispetto”.

Possiamo definire il tuo cinema “combattente”?
“Io credo in un cinema militante che prende posizione. Il vizio della speranza è il film più militante che abbia mai fatto. Perché decidere di fare un film in forma di preghiera è già una scelta militante, la preghiera è un gesto di chi ammette la propria debolezza, il proprio limite, e concentra la propria determinazione in un atto in cui ammettendo il proprio limite già lo si comincia a superare. Io non faccio riferimento a nessuna religione in particolare, è il gesto del riferirsi a qualcosa che non è qui e non è ora che credo sia militante”.

L’ultimo film che hai visto e che avresti voluto fare tu?
“I figli degli uomini di Alfonso Cuaron. Non recentissimo, ma ho sempre pensato fosse un soggetto straordinario. È un oggetto di studio su come esplorare lo spazio scenico in modo totalizzante”.

Che ne pensi del decreto Bonisoli che regolerà la contemporaneità dell’uscita dei film in sala e in streaming? Faresti un film per Netflix?
“Se il settore si muove in una determinata direzione non si deve essere dei nostalgici del tempo che fu. Bisogna sempre guardare avanti, al futuro. Bisogna proteggere questo settore, ma non facendo finta che il mondo si muova in altra direzione. La stessa Netflix si sta rendendo conto che la sala è importante come primo sbocco di un’opera. Poi dipende dalle opere. La sala non morirà mai, l’essere umano non smetterà mai di uscire di casa, radunarsi con altri esseri umani, assistere ad uno spettacolo in una sala buia. Questo non finirà mai. Cambierà il tipo di spettacolo, diventerà sempre più specifico. Noi faremo sempre lo stesso mestiere: racconteremo sempre storie cercando di emozionare, che sia su un muro, su uno schermo più piccolo o uno più grande”.

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