È recente la notizia che Glovo, la multinazionale spagnola del cibo a domicilio, ha rilevato le attività di Foodora, la sua ex concorrente tedesca, spaventata dall’annuncio di una nuova legislazione a tutela dei platform workers annunciata dal governo M5S-Lega per combattere la loro precarietà lavorativa. Purtroppo, se arriverà, la legislazione arriverà in ritardo, almeno per loro. Essendo inquadrati non come dipendenti, ma come lavoratori a progetto, i fattorini di Foodora non saranno mantenuti dalla nuova proprietà. Solo i pochi assunti con contratto di lavoro dipendente (50) saranno ereditati da Glovo.
Glovo non darà alcuna preferenza alle domande degli ex dipendenti Foodora sulle altre domande. Per molti, quindi, il passaggio di proprietà significherà quasi sicuramente una perdita del posto di lavoro. La metà, gli studenti, non soffrirà più di tanto per questo, ma gli altri sì, poiché contavano su quel lavoro e su quel magro reddito nei loro progetti di vita, almeno nel breve e nel medio termine.
La condizione dei delivery workers, definiti platform workers dall’Eurofound in uno studio molto citato, è difficile in tutta Europa al punto che se ne stanno occupando anche la Commissione europea e l’Ufficio studi del Parlamento europeo. Secondo un’indagine statistica della Commissione Europea, in 14 Paesi membri sono ancora pochi, in media il 2%, coloro che traggono più del 50% del proprio reddito dal platform work. Tuttavia, le percentuali sono più alte in alcuni Paesi: Regno Unito, Germania, Italia e Spagna. Molti di più sono, invece, coloro che traggono almeno parte dei propri guadagni dal platform work. Il platform work resterà una delle fonti più importanti di lavoro a bassa qualifica, legato all’industria 4.0 e alla gig economy. Saranno loro i sostituti della classe operaia e della classe media impiegatizia del passato e ormai in via di scomparsa.
Ci siamo già occupati in un precedente editoriale degli autisti di Amazon, concludendo che è necessario un intervento più forte da parte dei sindacati e una maggiore attenzione e tutela dei diritti. In un altro editoriale abbiamo detto che la soluzione del reddito di cittadinanza può andar bene per chi un lavoro non ce l’ha, ma per chi lo ha trovato è meglio parlare di un salario minimo di cittadinanza, che poi sarebbe una versione nuova di quello che era chiamato agli albori del capitalismo il salario di sussistenza per i lavoratori e la loro prole.
Oggi lo status di proletario è un miraggio per molti working poors, per i quali una famiglia è un lusso inarrivabile. Perché non siamo ancora arrivati al salario minimo? Nella tradizione italiana non c’è stato mai un salario minimo uguale per tutti, ma distinto per categoria di lavoratori, come definito nei relativi contratti collettivi. Ma oggi sempre di più sono i lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva. Occorre pensare a un salario minimo universale.
Non sarà facile introdurre un salario minimo universale a causa anche della debolezza dei sindacati. Gli iscritti crollano, facendo chiudere storiche camere del lavoro. In parte, quest’ultima è un sottoprodotto delle trasformazioni in corso. La prima forza dei sindacati era prima di tutto “fisica”: la concentrazione di una massa enorme di lavoratori in fabbrica facilitava l’acquisizione di una coscienza di classe e consentiva di imporre ai padroni di distribuire parte del plusvalore ai lavoratori. I nuovi modi di produzione portano ora a una dispersione dei lavoratori nelle diverse imprese, sempre più automatizzate.
Inoltre, la progressiva scomparsa della classe operaia ha fatto assumere ai sindacati un carattere che molti percepiscono come corporativo. Il sindacato difende gli interessi ormai di piccoli gruppi, non di tutti. Per dirla con il linguaggio di Karl Marx, la classe operaia non è più “classe rivoluzionaria”: il progresso della società nel suo complesso non dipende più da lei. Inoltre, i partiti di sinistra si sono sottratti al ruolo di compagni di strada, forse proprio perché i sindacati rappresentano sempre meno il mondo del lavoro. Una serie di leggi realizzate dai partiti di sinistra negli ultimi anni, in continuità allarmante con quelli di destra, ha ulteriormente ridotto il potere di contrattazione del sindacato, limitando il diritto di sciopero e i diritti sindacali in genere.
Che fare? Senza sindacati, i redditi da lavoro rischiano di cadere sempre più in basso. La quota del lavoro sul Pil è crollata negli ultimi decenni in Italia più che altrove, come ho fatto notare già in un articolo del 2010, in corrispondenza del Protocollo d’intesa del 1993. Occorre allora, in primo luogo, ristabilire i diritti sindacali e convincere i sindacati a fare l’interesse generale. Forse occorre anche cambiare il modo in cui i sindacati sono organizzati. Non più sindacati di settore o di categoria che rischiano di essere corporativi, ma sindacati rappresentativi di interessi più generali, anche dei disoccupati, dei precari e dei platform workers.
Occorrerebbe forse anche fondere i sindacati confederali, poiché continuare a rimarcare le differenze significa indebolire ulteriormente la rappresentanza del lavoro e rischiare che troppi sindacati siano percepiti come parassitari dai lavoratori stessi. I platform workers siano considerati lavoratori dipendenti con tutti i relativi diritti e si approvi la loro carta dei diritti al più presto.