Stamane leggo esterrefatto quanto ha scritto Massimo Gramellini sul Corriere della Sera riguardo la volontaria rapita in Kenya: “Ha ragione chi pensa che la giovane cooperante milanese rapita in Kenya avrebbe potuto soddisfare le sue smanie d’altruismo in qualche mensa nostrana”. Ora, visto che non solo faccio volontariato all’estero da 12 anni in Brasile, ma incoraggio altri a farlo – non da noi, ma ovunque – mi è sembrato necessario fare un appunto.
Incoraggio altri a farlo per la semplice ragione che dopo anni di ricerca spirituale, per come possa farla uno qualunque come me, magari goffamente ma sinceramente, mi sono reso conto che il servizio agli altri è l’azione più profondamente spirituale e artistica possibile. Molto semplicemente, fa bene alla salute psicofisica. Se vogliamo fare volontariato può anche essere, lo so per esperienza diretta, un atto di egoismo consapevole. Ciò non toglie che questo tipo di attività, a lungo andare, sia utile per iniziare a sbriciolare la terrificante corazza di ego che ci attanaglia tutti, a cominciare proprio da artisti e scrittori, tutti presi dalla propria bravura nell’esprimersi, nel criticare con arguzia, nel mostrare come si hanno le idee chiare. Persone che si ritengono lontane dall’idiozia della gente qualsiasi che fa quello che può. Come per esempio tentare di dare una mano agli altri. Dove poi questo avvenga, non si capisce chi possa arrogarsi il diritto di valutarlo o giudicarlo.
Questa donna è andata in Kenya, io sono andato in Brasile, prima lo facevo a Torino, al quartiere Lingotto, con suor Palmina, che dava aiuto a migranti e bambini terminali di cancro. Si va dove capita. E non dove qualcuno decide che debba essere politically o socially correct. La vita è strana. E nessuno è in grado di giudicare cosa fa qualcun altro, né da un bar, né da una redazione. Si rischia di scivolare. L’ignoranza di chi non ha capito nulla del volontariato, tanto meno del volontariato all’estero. L’ignoranza di chi passa le sue giornate dietro una tastiera senza – è evidente – la minima idea di cosa significhino questo tipo di esperienze.
Due anni fa hanno violentato nelle periferie di Rio de Janeiro una ragazza italiana che faceva un periodo di esperienza di volontariato con un’associazione con la quale lavoro anch’io. Se l’è cercata? Chi prende contatto con questa associazione (che non nomino per ragioni di privacy) lo fa ben consapevole dei rischi altissimi per aver a che fare, come facciamo noi, con bambini abbandonati, adolescenti ad alto rischio, trafficanti, viziati di crack – magari anche di 8 anni di età -, gente malata, feti ritrovati nella spazzatura. Capisco benissimo che esista anche una significativa compagine di illuminati che risolverebbe tutto questo con i lanciafiamme. Ma per altri tratta invece di esperienze devastanti che richiedono coraggio per essere avvicinate una volta sola, figuriamoci averci a che fare per settimane, mesi o anni.
Cambi totalmente punto di vista sulla vita, su te stesso e su cosa sia veramente importante. Capisci di cosa sto parlando? Osserva il mondo nel quale vive la gente che ha il sacrosanto e inalienabile diritto di vivere come vivi tu, e che tutti rispettano. Un mondo fatto, paradossalmente in realtà, da una minoranza che si indigna se qualcosa non funziona bene. Un mondo “a posto”. Un mondo “normale”. Ebbene questo mondo, di fronte alla presa di coscienza del fatto che in realtà la maggioranza vive in quell’altra maniera, che non va bene, dove a volte mettono piede dei volontari, perde abbondantemente di significato. Tutto si ridimensiona, si riassetta. Tutto è molto più profondo e complicato del “se l’è cercata” e “smanie di altruismo”. Non è facile né a Torino, né a Lampedusa, né altrove. Siamo tutti nei pasticci. Mi viene da parafrasare François Villon (mio antenato? Boh) dalla sua Ballata degli impiccati: “ma Dio pregate, che ci assolva tutti”.