Una paziente mi racconta che un mese fa è stata avvicinata davanti a una farmacia da una persona che le ha chiesto denaro per comprare le medicine alla figlia. Lei gli ha dato 20 euro. Da quel giorno si trova quasi giornalmente quest’uomo lungo il percorso da casa al lavoro, che cerca di attaccare bottone e le chiede con insistenza altro denaro. La signora non è ricca, vive del suo lavoro di operaia: per cui alcune volte gli dà cinque euro, altre volte gli dice di non avere denaro. L’assillo del questuante è divenuto per lei un cruccio.
Un signore pensionato lavora come volontario alla Caritas. Distribuisce, assieme ad altri, generi alimentari di prima necessità. Hanno scoperto che alcuni utenti prendevano molte più confezioni alimentari di quante necessitassero per poi, in una sorta di mercato nero, rivendere questi prodotti per procurarsi gli euro per andare a giocare al gratta e vinci.
Un signore che ha subito una grave disgrazia familiare è divenuto aggressivo con tutti. A parole afferma che vorrebbe che quelli che partono coi barconi dalla Libia morissero tutti affogati. Se incontra un barbone per strada lo apostrofa in malo modo e se, quando è al ristorante, qualcuno si azzarda ad avvicinarlo per vendere rose fa una piazzata. Per quanto riguarda Silvia Romano, la cooperante rapita in Kenya afferma: “Chi glielo ha fatto fare? Ora si arrangi!”.
Prendo spunto da queste tre storie per affrontare il problema della bontà. In questo fine novembre, i commercianti hanno già cominciato a spingere sullo spirito natalizio, che nella nostra tradizione millenaria rappresenta simbolicamente l’importanza dei buoni sentimenti. Naturalmente, in questo caso, sappiamo che la bontà è usata dal commercio in modo strumentale per vendere prodotti. Tutti, indistintamente, ci sentiamo nel nostro intimo buoni e vogliamo, entro certi limiti, aiutare gli altri. Il problema appunto è quello dei limiti. Quali sono? Fino a che punto un atteggiamento “buonista” può divenire controproducente? E quando un atteggiamento “cattivista” può divenire responsabilizzante e educativo? Il confine fra bontà e cattiveria è a volte labile. Istintivamente quando siamo in difficoltà diveniamo più aggressivi e possiamo arrivare a scusare anche orrende nefandezze.
Ho già parlato in questo blog dell’effetto Lucifero per cui si trovano inconsciamente mille scuse per poter esprimere la nostra aggressività. Demandiamo a un’autorità esterna, appunto il diavolo Lucifero, la responsabilità delle nefandezze che noi stessi in cuor nostro appoggiamo. Ad esempio in questo momento tutti sappiamo che in Libia, coi nostri soldi e il nostro appoggio, i migranti vengono torturati. Ma preferiamo non pensarci e cercare di sentirci buoni perché compriamo un regalo per qualche parente. Sull’altro versante sappiamo che un atteggiamento troppo accogliente potrebbe essere interpretato come incentivo a nuove ulteriori migrazioni e che il “buonismo” ci esporrebbe a problemi molto difficili da gestire.
Ognuno di noi cerca dentro sé una risposta. Nessuno dall’esterno può risolvere questo dramma individuale e le facili scorciatoie per le quali la soluzione è questa o quella sono illusioni. L’equilibrio fra bontà e cattiveria è fragile e celato nel nostro cuore. Sapere che ragazzi come Elena Romano cercano di cambiare il mondo aiuta ognuno di noi a cercare dentro di sé le risposte.