A cosa serve la tecnologia? A supportarci nel nostro lavoro, rendendo affrontabili e sormontabili processi usuranti che con le nostre “mani nude” non potremmo compiere, oppure a sottrarci le nostre capacità d’ingegno, di espressione, di rielaborazione, di collaborazione e di produzione, sostituendosi nei processi creativi che sappiamo, possiamo e desideriamo svolgere?

Questa settimana è stato presentato un esperimento (riuscito) di algoritmo in grado di scrivere sceneggiature “dalla forte carica emotiva” al posto degli umani. Utilizzando il sistema d’intelligenza artificiale Watson, sviluppato per il progetto “DeepQA” della Ibm, il marchio automobilistico di lusso Lexus di Toyota – in collaborazione con lo studio creativo The&Partnership London e il partner tecnico Visual Voice – ha richiesto al sistema d’intelligenza artificiale di analizzare 15 anni di storia delle migliori produzioni pubblicitarie al mondo, aggregando gli elementi più significativi in termini di coinvolgimento emotivo dello spettatore e rapportando il tutto ai tratti caratteristici del marchio Lexus. Il risultato è una sceneggiatura melodrammatica coinvolgente e di senso compiuto, della durata di un minuto, la cui messa in scena è stata affidata al regista del documentario premio Oscar Un giorno a settembreKevin Macdonald.

Questo esperimento rappresenta un’evoluzione per il genere umano, oppure rischia di impigrirlo e di renderlo sempre meno autonomo? Affidare a un processore l’incarico di computare migliaia di pubblicità che negli anni hanno vinto premi e riconoscimenti e dunque farne una summa – aggregando gli elementi ritenuti emotivamente più potenti e persuasivamente più efficaci – per poi affidare il compito di portare la storia su schermo a un eccellente professionista “in carne e ossa”, rappresenta il connubio perfetto tra la macchina (che pensa) e l’individuo (che agisce)? Oppure comporta il rischio di una mortificazione delle capacità creative umane relative a quel “pensiero” – in questo caso: la sceneggiatura – avvilite perché ritenute di minor valore e meno performanti di un sistema artificiale di analisi e di calcolo, indebolendole fino allo scongiurabile estremo di farle appassire drasticamente? E ancora: se questa tecnologia dovesse trovare sempre maggior applicazione, dagli sceneggiatori si passerà ai registi? E agli attori? E a cos’altro?

Forse è più “economico” programmare sofisticatissimi sistemi artificiali di analisi, di comparazione e di produzione automatiche piuttosto che “investire” su miliardi di menti umane, consentendo loro di progredire in un percorso di formazione e crescita che conduca allo sviluppo del proprio reale potenziale. Il timore, però, è che in nome di un progresso tecnologico (che realizza tutto ciò che è possibile più che tutto ciò che è opportuno), stiamo mettendo in moto un processo di regressione umana, rimettendo competenze e capacità in cui siamo in grado di eccellere a calcolatori che, invece di sostenerci facilitando il processo, si sostituiscono a noi richiedendoci di eseguire sempre di più e di pensare sempre di meno.

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