Ascesa e caduta, in nemmeno tre settimane di campagna elettorale, del candidato democratico Gary Hart. Qualche anno prima di Monica Lewinsky, addirittura trent’anni da Stormy Daniels, ecco lo scandalo sessuale che ha fatto tremare la politica negli Stati Uniti. The front runner, il candidato favoritissimo alle presidenziali del 1988, quell’idealista dell’Ovest che ricordava Kennedy, è il titolo del film diretto da Jason Reitman (Tra le nuvole, Juno, Tully) che apre il 36esimo Torino Film Festival. Filmone assolutamente imperdibile, denso e zeppo di eterne idiosincrasie e paure americane, continuamente elettrificato da scariche di corrente narrativa che sembrano mulinare in tanti rivoli secondari e convergere continuamente lì, in quel faccione apparentemente impenetrabile di Hart (uno Hugh Jackman, parruccone e colori anonimi, degnamente understatement) illuminato come un Bill Clinton qualsiasi appena vede il fondoschiena della giovane Donna (Sara Paxton). Attenzione: nulla di libidinoso.
Hart è chiaramente un donnaiolo con garbo ed eleganza. Solo che uno degli inviati dei quotidiani a seguire il candidato favorito la butta lì tra mille domande: può parlarmi del suo matrimonio? A vigilare sul quadretto edificante per la stampa c’è sì la moglie Lee (una sontuosa Vera Farmiga), tutta camicioni a quadretti da bosco del Colorado e orgoglio ferito a morte, ma Gary la questione della sua privacy non vuole proprio toccarla: “Seguitemi pure ovunque, c’è poco da vedere, vi annoiereste”. Detto, fatto.
Questa volta è un cronista del Miami Herald che dopo una soffiata si piazza “tra i cespugli” davanti alla casa degli Hart a Washington. Convoca un fotografo e in modo abbastanza goffo ma alquanto efficace sgama la bella fanciulla che entra nell’appartamento del senatore democratico. Set, gioco, incontro. Da qui la campagna elettorale per diventare il primo presidente americano democratico dell’Ovest invece di svariare sulla politica estera e sul rilancio dell’economia (a proposito Hart davanti a degli operai redneck, riferendosi ai messicani dice pure ‘aiutiamoli a casa loro’) svanisce.
Il colpo di grazia è nell’ennesima conferenza stampa con il giovane giornalista che impacchetta per sempre le velleità presidenziali di Hart: “Ha mai commesso adulterio?”. Reitman con la complicità degli sceneggiatori Matt Bai e Jay Carson, affidandosi ad un delicato e costante umorismo sottotraccia, annoda i fili del discorso partendo da un breve prologo nel 1984 concentrandosi poi su più dimensioni del discorso: dall’affermarsi di un moralismo popolare statunitense rispetto all’etica dei candidati politici che dal 1987 in avanti non perdonerà mia più una scappatella, fino a quello che sembra essere il vero cuore pulsante della drammaturgia del film. Ovvero la trasformazione della stampa in affamata creatrice e inseguitrice di gossip.
Niente più aplomb del quarto potere, quindi, per permettere a JFK o a Lyndon Johnson di farla franca (i dialoghi nelle redazioni dei giornali sul tema sono cinicamente e scrupolosamente da Oscar) ma una vera e propria imboscata continua sul coté privato del singolo (“pensano che un’affermazione di 15 anni fa sia emblematica?”, si chiede vanamente Hart) per guadagnare copie e lettori, ed annullare definitivamente la differenza tra beceri tabloid provinciali e azzimati quotidiani urbani. The front runner, con quella grana visiva modello nebbiolina da nastro magnetico tipicamente anni ’80, oscilla con grazia e prepotenza tra pubblico e privato dei protagonisti, tra attori gentili e signorili che sembrano usciti da un film liberal di George Clooney, offrendo perfino qualche velatura di impotenza politica di fronte alla realtà dei fatti che ricorda il finale de Il candidato di Michael Ritchie (1972). Tanto che ad un certo punto, per il mare di melma che cade su Hart e per il peccato veniale da lui commesso, si prova una sincera pietà umana.
Altro bel titolo della prima giornata del TFF è Willdlife. Primo film in Concorso al TFF36,opera prima diretta dall’attore Paul Dano (There will be blood, Love&Mercy, Little miss sunshine) è la storia di un terzetto familiare – papà (Jake Gyllenhall), mamma (Carey Mulligan) e il figlio quindicenne Joe (Ed Oxenbould) – che si trasferisce a Great Falls nel Montana nel 1960. Il padre ha difficoltà nel mantenere il suo lavoro come inserviente al circolo del golf locale. Così impulsivo e orgoglioso com’è l’uomo non attende nemmeno la telefonata di scuse del suo ex datore di lavoro e parte per andare a spegnere gli incendi in mezzo ai boschi. Lavoro pericolosissimo che lo terrà lontano da casa diversi mesi e per pochi dollari. Scelta radicale che abbatterà anche le ultime resistenze di mantenere unita la famiglia da parte di mamma che prima torna a lavorare come insegnante di nuoto, e che poi finisce per mettersi insieme con un ricco, vedovo, e anzianotto proprietario di un autosalone.
In attesa che cada la neve, e che gli incendi si spengano da soli, e quindi che papà torni a casa, Joe prova a ricomporre i frammenti intimi e affettivi della sua difficile quotidianità adolescenziale. L’America fotografata da Dano è qualcosa di assolutamente ipnotico e inatteso. Uno spazio di provincia, ai piedi delle montagne innevate, polveroso e biancastro, spoglio e isolato. Pochissima concitazione nei dialoghi, ieratiche carrellate laterali, pause che si sciolgono in sguardi carichi di rassegnazione, come in quei primi piani di Joe mentre osserva ammirato e di tre quarti il padre (inquadratura ripetuta che vale il film), Wildlife è scritto da Dano con la fidanzata Zoe Kazan, ed è basato sul romanzo Incendi di Richard Ford (Feltrinelli) riprendendo dal libro una sorta di silente individualismo alla ricerca della vana felicità dei protagonisti adulti.