Chiamava Michelangelo compare, la pittrice molto apprezzata alle corti reali di mezza europa, è una figura tragicamente attuale, una rivoluzionaria, una femminista ante litteram. Ha dato voce alle donne della sua epoca. Ha preso a calci un mondo di pregiudizi
Mi telefona la curatrice Elisa Greco: “Vuoi essere Artemisia per Incontri con la Storia?”. Dico ‘sì’, di getto. Ma che responsabilità, dare voce al primo MeToo della storia. E così per onorare la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Elisa, nella monumentale Sala Bianca di Palazzo Pitti, a Firenze, mette in scena un vero e proprio processo: colpevole o innocente, “Artemisia contro Orazio”, praticamente la figlia contro il padre.
Artemisia Gentileschi, una donna tragicamente attuale, una femminista ante litteram, ha dato voce alle donne della sua epoca. Ha preso a calci un mondo di pregiudizi. Ecco l’incipit della mia difesa:
“Padre, per colpa tua tutti mi ricordano per lo stupro e, ahimè, non per la mia arte. Sono la primogenita, nostra madre è morta quando avevo 12 anni. Ho fatto da madre ai tuoi figli.
Li ho accuditi, lavati, vestiti. Io a 12 anni ho smesso di esserti figlia. E tu di essermi padre. La mia ammissione all’Accademia delle Arti è stata una rivoluzione: sono stata la prima donna a ottenere un riconoscimento riservato solo agli artisti maschi. La pittura, come ben sai, alla nostra epoca, era considerata una pratica quasi esclusivamente maschile. Cosa voleva dire essere donna nel 1612: un essere debole, con pochi diritti, molti doveri e l’obbligo di essere pia, sottomessa e feconda. Ma soprattutto inferiore: qualunque marito o padre, fosse anche il più inetto e rimbambito, vale più della donna di cui è legalmente responsabile.
Ho dovuto aspettare un anno perché tu ti decidessi a denunciare Tassi. Non potevo ricorrere alle vie giudiziali autonomamente, dato che all’epoca ciò non era consentito alle donne: dovevano essere i coniugi (o in tal caso il padre) a vendicare l’onta subita. La violenza non era considerata un’offesa alla donna bensì all’uomo che la possedeva, di cui ne era proprietario. Mi facevo chiamare ‘pittora’, per ribadire il mio essere donna. Ho ottenuto importanti commissioni dalle famiglie fiorentine (compreso Cosimo de’ Medici). Galileo Galilei nutriva per me grande stima e chiamavo compare un giovanissimo Michelangelo Buonarroti. Mi ritenevo una sua pupilla, una sua legittima ‘figliola’ d’arte. Sono fiera della mia indipendenza che mi sono conquistata pennellata dopo pennellata. Ho vissuto del mio lavoro non della dote di famiglia, ho viaggiato, sono stata invitata alle corti reali di mezza Europa. Ho cercato di mettere quanta più distanza tra me e lo stupro subito. Una violenza che mi ha devastato il corpo e l’anima. Le prime ferite si sono rimarginate, le seconde no. Sono rimaste scolpite. Sono stata umiliata e torturata. E tu, padre, non hai mosso un dito! Già le dita. Avrei rischiato di perderle per sempre, danno incalcolabile per una pittrice. Il supplizio scelto era quello “dei sibilli” per stritolarmi le falangi.
Mentre lui, il mio carnefice, Agostino Tassi, pur riconosciuto colpevole tornò in libertà dopo meno di un anno. E continuò la sua vita tumultuosa, disseminata di violenza su altre donne. Ma alcune amicizie nei posti giusti gli permisero di cavarsela il più delle volte. Invece io venivo etichettata come pittrice bella e scandalosa che mette in scena se stessa. Come nell’autoritratto dove suono il liuto. Il mio seno prorompente è una provocazione.
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