Il vicepremier, ministro e leader del M5s Luigi Di Maio non si è presentato al comizio che venerdì 23 novembre era in programma a Corleone, in Sicilia, in vista delle elezioni comunali. La decisione è stata presa dopo la pubblicazione di una foto del candidato sindaco del Movimento 5 stelle, Maurizio Pascucci, in compagnia del marito (un barista incensurato) della nipote del boss Bernardo Provenzano. Pascucci aveva pure detto che si può dialogare con i parenti che prendono le distanze dai mafiosi. Circostanze che non sono state svelate dai servizi segreti grillini né da quelli dello Stato: l’aspirante primo cittadino aveva fatto e detto tutto pubblicamente e, forse, ingenuamente. Però questo caso, quasi folcloristico, offre l’occasione per ragionare sui criteri di selezione usati dai pentastellati.
Per capirci, occorre una premessa. Corleone è un paese non lontano da Palermo. Deve la sua fama soprattutto al fatto che sono stati corleonesi alcuni tra più potenti capi della mafia, dal dopoguerra in poi. Tanto che per 50 anni e fino all’anno scorso nella Chiesa Madre c’è stato un banco donato dal capostipite del potere di Cosa Nostra, con tanto di targa: “Dottor Michele Navarra”. Un simbolo rispettato. Nel 2017 l’arcivescovo di Monreale Michele Pennisi l’ha fatta rimuovere, in seguito alla segnalazione della Prefettura.
Dopo la Seconda guerra mondiale, proprio Navarra – classe 1905, medico – comandava una vasta alleanza di mafiosi, ma ben presto alcuni giovani corleonesi pretesero più potere. Il leader di quella nuova leva, Luciano Liggio, fondò un suo clan, dove i sicari più promettenti erano Salvatore “Totò” Riina e il già citato Bernardo Provenzano. Tutti nomi che hanno fatto la storia di Cosa Nostra. Fra il 1945 e il 1961 i regolamenti di conti provocarono 52 morti, molte altre persone scomparvero. Il “dottor Navarra” fu assassinato il 2 agosto 1958.
Che cosa c’entrano Corleone e Navarra con l’imbarazzo di Di Maio? C’entrano, perché quel boss mafioso dimostra che le cosche da sempre sanno farsi strada in partiti, istituzioni, imprese e finanza. Alle elezioni regionali del 1947 Navarra sostenne gli indipendentisti siciliani, alle politiche del 1948 il Partito liberale, negli anni Cinquanta la Dc. Lasciò in eredità un metodo che non è mai cambiato, semmai si è raffinato. Parola d’ordine: infiltrarsi. Tanto che era legato alla cosca anche il sindaco Dc di Palermo Vito Ciancimino (1924-2002), nato a Corleone e democristiano nella corrente di Giulio Andreotti: arrestato nel 1984, grazie al pentito Tommaso Buscetta e al giudice Giovanni Falcone, per associazione mafiosa, fu condannato in via definitiva. Non solo: la vedova dell’ex sindaco, Epifania Scardino, nel 2010 disse ai pm Nino Di Matteo e Paolo Guido che il marito tra il 1973 e il 1975 avrebbe incontrato a Milano l’allora imprenditore Silvio Berlusconi tre volte, anche in sua presenza, per parlare di affari. Insomma, la storia della potente mafia corleonese arriva fino a oggi. Ora in Sicilia c’è una apparente “tranquillità”. Ma le organizzazioni mafiose continuano a fare affari, incassando decine di miliardi l’anno.
Torniamo a Di Maio. Come ha scoperto che il suo uomo a Corleone era fuori rotta? Per caso. Ha fatto sapere il vicepremier: “Ho aperto il cellulare e tra le news c’era la notizia del nostro candidato sindaco M5S che voleva aprire al dialogo con i parenti dei mafiosi. E questa dichiarazione fa il paio con la foto sua con il nipote del boss Provenzano, uno dei capi della mafia”. Evidentemente, nessuno tra politici e militanti grillini siciliani aveva mai intuito qualche strano punto di vista da parte del candidato. Dunque, che cosa fa pensare ai dirigenti del M5s di essere immuni all’eventuale infiltrazione mafiosa? Il nodo sta nello stesso sistema di selezione – on line e/o plebiscitaria – dei candidati nelle elezioni locali e nazionali, pur dando per scontata la buona fede del Movimento. Con poche centinaia di consensi si viene prima messi in lista e poi eletti. Non si capisce quale sia il criterio usato – al di là del passaparola e della richiesta agli aspiranti candidati di non essere indagati o pregiudicati – per schivare gli eventuali infiltrati, tanto più che un mafioso sotto copertura apparirebbe di certo lindo, privo di legami familiari e incensurato.
Non è un problema nuovo: “Un camorrista potrebbe gestire i voti sul portale”, disse già nel 2014 il deputato pentastellato salernitano Girolamo Pisano (non ricandidato nel 2018 per irregolarità nei rimborsi). In un’intervista affermò: “Le liste si riempiranno di mafiosi e camorristi, chi lo impedisce? Nessuno può garantirti che una persona con la fedina penale pulita non sia invece un malintenzionato. Se io fossi un bel capo camorrista, farei iscrivere i miei familiari sul blog, creerei di fatto una struttura fantasma ufficializzata con il meet-up e alla fine candiderei qualcuno gestendo direttamente i voti sul portale. È un meccanismo facilissimo da infiltrare e loro lo sanno”. Loro, all’epoca, erano Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Ma la sorpresa di Luigi Di Maio di fronte al caso siciliano lascia intendere che gli strumenti di controllo non ci siano ancora. Intanto l’ormai ex candidato sindaco grillino di Corleone, sfiduciato dal Movimento, aveva detto che sarebbe rimasto candidato e che avrebbe deciso il famoso “popolo”. Risultato: ha vinto il centrodestra.