È una tecnica antica: se sei in difficoltà attacca, creati un comodo bersaglio per colpire meglio. È quanto ha fatto la Repubblica, domenica 25 novembre al teatro Brancaccio, presentando la stampa italiana come assediata dal potere. Non è così, naturalmente. La politica discute di editori impuri che utilizzano i giornali per coprire certi scandali (caso Consip) e ampliarne altri (caso Raggi), eccetera. È un fatto. Ma di questo al Brancaccio non s’è detto nulla perché, secondo una tesi ben sintetizzata da Umberto Eco, “non sono le notizie che fanno il giornale, ma il giornale che fa le notizie”, e la Repubblica i fatti, nel teatro romano, li ha cucinati a modo suo. Meglio far parlare la giornalista filippina, Maria Ressa, minacciata per le critiche a Rodrigo Duterte. L’Italia come le Filippine, come il Brasile, come la Turchia: questa è la costante degli interventi, il filo rosso che li lega.

Intendiamoci, sono state dette cose vere sulla situazione del giornalismo nel mondo, ma non c’entrano nulla – è questo il punto – con l’Italia. E tuttavia, costruita la tesi, bisognava supportarla: ed ecco Ezio Mauro affermare che le aggressioni alla stampa sono il segno dell’attacco alla liberaldemocrazia in tutto l’Occidente. Ecco Sebastiano Messina esplicare, senza veli, il senso della giornata: “a differenza di Erdogan, i 5stelle non vogliono addomesticare i giornali, vogliono chiuderli definitivamente”. Poche parole di Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista – sbagliate, certo – hanno trasformato l’Italia in luogo di negazione della libertà di stampa. Un’esagerazione.

È evidente la volontà – anche attraverso la manifestazione al Brancaccio – di passare per vittime di un potere ostile, che in verità vuol mettere regole in conflitti d’interesse noti a tutti, meno che a largo Fochetti. E infatti, zero interventi sugli editori impuri e spazio a Donald Trump (Zucconi) e alla negazione della libertà di stampa in Turchia (Baydar), con l’idea fissa che anche in Italia sia così. Responsabili i grillini, naturalmente, come hanno detto Messina e Bottura mostrando (si fa per dire) “la strategia di delegittimazione della stampa del M5s”. È davvero troppo. Mario Calabresi indica “le truffe” del governo sull’informazione. Credo che la grande truffa, in verità, sia fingere di non vedere il conflitto d’interesse di editori come Carlo De Benedetti (tema ignorato con scientifica meticolosità).

Ragionare di diritti che nessuno nega – come al Brancaccio – è un inganno: è parlar d’altro spacciando il nostro per un Paese sudamericano. Tiziano Terzani dice: “Il mio istinto è sempre stato di stare lontano dal potere. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo domande. Questo è il giornalismo”. Ecco, è quello che la Repubblica non ha fatto col potere quando governavano Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. Adesso scopre che in Italia c’è un clima sudamericano (perché la politica tocca gli interessi del suo editore). Suvvia, questa se la bevono solo i lettori di Marziani. Si nasconde il tema dell’editore impuro – questo è il punto – perché l’espressione “conflitto d’interesse” deve essere accostata solo a Berlusconi. Non va bene. È un gioco che non regge più.

Post scriptum. Primo: “I nazisti facevano sempre riferimento al popolo – ha detto Damilano – anche oggi si fa continuamente riferimento al popolo.” Damilano cita Bobbio e l’Elogio della mitezza e della misura. Peccato sia andato oltre misura accostando i 5Stelle ai nazisti. Secondo: “Si può prendere alla lettera un intervento comico di Grillo – contro L’Unità, Repubblica, Corriere – e presentarlo come un programma politico? Ecco: sono queste esagerazioni che, secondo i 5stelle, fanno di Repubblica un giornale fazioso. Non hanno tutti i torti.

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