Cinema

Torino Film Festival, poi un mattino di novembre arrivò Blaze ed è già il nostro film del cuore

Il cantautore deep south, omone grande grosso e zoppo, un po’ country e un po’ folk, che l'attore Ethan Hawke ha voluto raccontare, ritrarre, anche solo pennellare, nell’immensità di una vita, di una corda di chitarra pizzicata, ai bordi di una strada polverosa, dentro a un bar a registrare un live mentre chiunque passava lo interrompeva, è protagonista di un film con una storia senza tempo

di Davide Turrini

Lodevole, anche se vano, lo sforzo di Francesco Barozzi, regista de L’ultima notte: unico thriller italiano, per nulla horror, nella sezione molto orrorifica Afterhours del 36esimo Torino Film Festival. E perché sia l’unico tra una ventina di titoli (spesso da saltare sulla sedia) si capisce senza nemmeno arrivare in fondo al film. La cultura cinematografica italiana (e nel film di Barozzi siamo oltretutto nel low budget più low possibile, quindi nel più totale campo aperto di possibili codici e linguaggi da utilizzare) non riesce ad esprimere più o meno dagli anni settanta una franca, anarchica, libertaria trasfigurazione del reale in una confezione destabilizzante di genere. L’avevano pubblicizzato come un film che “guarda all’horror padano di Avati” e ci siamo cascati. L’ultima notte manca proprio di quel furore da ‘mollate gli ormeggi’, di quella istintività necessaria per ricreare un’atmosfera deragliante. E poi manca di sangue in scena, manca dell’aleggiare del senso di morte, manca di sacrosanta suspense.

Non c’è una ricetta precisa scolpita nella pietra, anzi semmai si dovrebbe assecondare uno slancio naturale creativo. Invece Barozzi&Co. (cast tecnico artistico ridotti all’osso) seguono proprio una “ricetta”, preparano il compitino. Raccontando dell’improvvisa e urgente necessità di una donna adulta, Bea (Beatrice Schiros), nel voler tornare nella casa di famiglia immersa nella compagna modenese, là dove fratello e sorella che paiono a un passo dalla follia vivono seguiti dall’assistenza sociale, regista e produzione avrebbero davanti una prateria da cavalcare. Invece pensano ai mustacchi modello Maccio Capatonda da incollare sul labbro di quello che dovrebbe essere il personaggio più sinistro e imprevedibile; oppure si concentrano nello sforzo sovrumano di rabbuiare il set (roba che al primo minuto suona inquietante, ma al trentesimo, senza una variazione che una, abbastanza ridicolo); o ancora nell’ideare un sound design devastante, onnipresente e didascalico che ad un certo momento è l’unico elemento significante per tenere alta (?) la tensione. Perché ne L’ultima notte non accade nulla di nulla per ben 72 minuti. O meglio: si ripete la stessa sequenza di Bea che cerca di avvisare qualcuno della pericolosità dei fratelli. E non è che dal 73esimo fino all’85esimo accada chissà che, se non nel finale, ma proprio sui titoli di coda, dove si rimescolano un po’ le carte in tavola. Eccola, allora, la ricetta: “se l’hanno fatto altri, proviamo anche noi”. Solo che ragazzi, serve la ginga, bisogna possedere una frenesia, un’impellenza nel dover dire e mostrare qualcosa. Almeno quando si è (quasi) all’esordio, almeno lì. Comunque che peccato.

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