Zero dissidenti, zero dubbi, zero mal di pancia, almeno in apparenza. Il decreto Sicurezza diventa legge passando come un treno alla Camera, perché il convoglio è piombato. A Montecitorio, con la blindatura della fiducia passa la prima legge salviniana purosangue: via i permessi di soggiorno per motivi umanitari, migranti fino a 6 mesi nei centri di permanenza, taser ai vigili urbani, più severità negli sgomberi, più poteri ai sindaci con i cosiddetti “negozietti etnici” (qui tutte le misure principali). E’ probabilmente la legge più identitaria della Lega e sopra c’è anche il sigillo del simbolo delle cinque stelle: il patto è di cemento armato, in nome del contratto di governo, e in più, giura in Aula la grillina Federica Dieni, il testo è stato anche migliorato. L’ala ortodossa forse c’è ma non si vede: 336 favorevoli, nessun astenuto, nessuno esce dall’Aula, gli assenti tutti casuali, nessun De Falco che “non deflette ai principi”. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini si gode la gloria in Aula, in una foto sembra accogliere a sé – come in un abbraccio, come il profeta – i leghisti in fibrillazione per cosa sta per accadere, il ministro Fontana tra gli altri. Inebriato, con i ministri M5s lontani, il vicepremier rammenta il pugno del collega ai Trasporti e gigioneggia: “Sobrietà ragazzi, sobrietà – raccomanda ai suoi in un frammento rubato da ilfatto.it – O andiamo sul balcone?”. E’ il giorno in cui si esaudisce il desiderio, si avvera il grosso di una linea politica che finora non ha mai fallito. Il capogruppo Riccardo Molinari alza la voce, a servizio del peso specifico di questi istanti che sembrano banali ma sono il primo jackpot sui prossimi 6 mesi, quelli prima delle Europee. “Lo votiamo con rabbia ed orgoglio” urla Molinari.
Chissà se è volontaria o no la citazione proprio di quel libro con cui Oriana Fallaci reagì al terrorismo islamico delle Torri Gemelle, di certo il capo dei leghisti di Montecitorio squaderna il breviario delle parole sovraniste: “La nostra terra tornerà ad essere casa nostra e non terra di nessuno”. La presidente di turno Mara Carfagna deve aspettare qualche istante in più al termine dell’intervento perché i colleghi lo celebrano con un prolungato applauso in piedi. E’ l’entusiasmo, direbbe forse il ministro Toninelli. L’approvazione che sta per arrivare permette ai leghisti di dimenticare la storia dei 49 milioni, il fardello del processo a Belsito, il coinvolgimento del Capitano in quelle vicende di soldi spariti, carte private e bollate, giudici e avvocati. Tutto cancellato. Il decreto su sicurezza e migranti “porta tranquillità, ordine, regole e serenità nelle città italiane”, sottolinea di nuovo il ministro dell’Interno in una conferenza stampa allestita mentre ancora la chiama dei deputati è di là da finire, ben prima che il presidente Roberto Fico legga l’esito, quasi senza tono. “Metto all’ultimo posto gli interventi sull’immigrazione perché c’è tanto altro: l’intervento organico parte dall’antimafia” assicura Salvini. Avevano tutti frainteso la sua lista delle priorità, sui social e nelle piazze.
A votare per la fiducia sul decreto sicurezza sono stati tutti i deputati M5s e Lega, gli assenti sono tutti casuali. Tuttavia Fratelli d’Italia e Forza Italia votano contro solo perché c’è la fiducia. “Noi vorremmo collaborare – si danna il tricolore Fabio Rampelli – ma troppo spesso i nostri emendamenti vengono bocciati”. “Questo decreto – dice Giorgio Silli, vibrante responsabile Sicurezza degli azzurri – ricalca in larghissima parte, non in tutto, quello che è il nostro pensiero in tema di immigrazione e sicurezza e ricalca in larghissima parte i programmi comuni di governo del centrodestra, nei Comuni, nelle Regioni e nelle Province, dove Forza Italia è naturalmente alleata con la Lega”. “Votiamo con convinzione questa fiducia”, tiene a precisare Federica Dieni a nome del M5s. D’altra parte “non c’è nessuna ragione per non farlo: il nostro governo è riuscito a fare in 5 mesi quello che i suoi detrattori non hanno fatto in 5 anni”. Non è una contropartita, no: semmai “un segno di lealtà nei confronti dei cittadini”. Ad ascoltare c’è anche il capo politico, il vicepresidente Luigi Di Maio.
Ascoltano ma non parlano più i 19 deputati della lettera al capogruppo Francesco D’Uva: “Ci sono parti del decreto che non sono nel contratto” avevano detto. Si è consumato nel silenzio anche l’ultimo appello di Valentina Corneli, parlamentare che aveva espresso fino a ieri le perplessità su due articoli del decreto (1 e 12) che insieme potrebbero “determinare un rischio, in relazione al peggioramento della sicurezza per gli immigrati sul territorio”. Sono gli stessi articoli su cui aveva espresso perplessità in successione anche il presidente della commissione Affari costituzionali Giuseppe Brescia. Perplessità superate, ha spiegato ieri, e mentre lo dice rimarca però “l’impianto del decreto regge se i numeri degli arrivi si attestano sulle cifre registrate quest’anno, se i tempi di risposta da parte delle commissioni territoriali si accorciano e se aumentano i rimpatri”. Se, se, se. Ma la voce di Gregorio De Falco, che al Senato aveva parlato di “gravi lesioni all’ordine giuridico e alla sicurezza dei cittadini” è solo un ricordo. Ormai lontana quella di Paola Nugnes che ieri si chiedeva: “Cosa avremmo detto e fatto noi ieri di fronte ad un provvedimento tecnicamente sbagliato, umanamente devastante, pregiudizialmente anti costituzionale? Su quali tetti saremmo a denunciare?”. Molti di questi speravano che in realtà le modifiche fossero di più e ben altre. Ma non c’era più tempo: la scadenza del decreto era fissata al 3 dicembre, Salvini aveva fatto capire che a questa legge teneva quasi più che alla manovra, si era perfino lasciato scappare che senza questo decreto “salta tutto”. Al primo momento in cui il contratto di governo ha percepito un po’ di fragilità parlamentare (De Falco e i suoi voti citando “Ritorno al futuro” e poi il minicicciolo acceso sotto al voto segreto dell’Anticorruzione, squillino di avvertimento leghista), la maggioranza del cambiamento esce più forte nei numeri, non nella fiducia reciproca. Per quello servirà attendere le Europee, la campagna elettorale che ci sarà prima e le strade che si apriranno dopo.
Tutte le opposizioni parlano di scambio, nel frattempo: il decreto Sicurezza in cambio del ddl Antisicurezza che però è ancora da correggere dopo quella frittata sul peculato che coinvolge anche e soprattutto il capogruppo della “nostra terra”. Nel merito, invece, le minoranze parlano soprattutto con l’ex presidente della Camera, Laura Boldrini, che di rifugiati si è occupata per tutta la vita precedente a quella di Montecitorio: “Questo decreto – dice a nome di un partito che non c’è nemmeno più, Liberi e Uguali – non serve per la sicurezza ma solo per la propaganda del governo. Il governo è maestro nel creare paure indirizzandole verso i migranti, verso la loro presenza”. Piuttosto, aggiunge, “la lotta la state facendo in realtà contro l’integrazione e il vostro decreto non è altro una fabbrica di irregolari. Perché voi mirate al caos, non alla sicurezza. Perché se la situazione fosse ben governata verrebbe meno il tema principale sul quale è stato costruito il vostro consenso”. Emanuele Fiano, invece, punta di più sulla polemica politica, tira in ballo perfino il padre di Di Maio, provoca la maggioranza: “E’ meglio, per la Lega, concedere un condono edilizio ai Cinquestelle che perdere un condono fiscale domani. Anche se stai concedendo un ‘salva-peculato’ a chi è stato condannato ieri in appello per la restituzione di 49 milioni di euro degli italiani che la sentenza dice ‘avete indebitamente trattenuto'”. Per Fiano con questo decreto “si calpestano i diritti delle persone”. Resta da capire a quale partito appartenessero i senatori che dieci giorni fa contestavano il decreto perché porterà “più clandestini“, riprova che Salvini aveva già vinto molto prima del voto di Montecitorio, sul vocabolario e anche parecchio sull’agenda setting. Fuori dal Parlamento un corteo cammina da piazza San Silvestro a piazza Montecitorio. “Quelli del Baobab e gli altri amici” li stuzzica su twitter il ministro dell’Interno. Lo striscione in testa dice: “Quando l’ingiustizia diventa legge, disobbedire è un dovere“. E’ una voce di piazza, ma dentro il palazzo non la sente quasi nessuno.