di Giancarlo Boero*
Nelle scorse settimane ItaliaOggi ha pubblicato i risultati della classifica sulla qualità della vita nelle città italiane. Le reazioni di molte persone mi lasciano perplesso. Chi esulta perché vede la propria città occupare le prime posizioni, chi si dispera perché non rientra nemmeno tra le prime cento. Tutto questo come se un cittadino avesse bisogno di una graduatoria per sentirsi più sereno nel luogo in cui vive. Trovo alquanto penoso vedere un milanese che, consapevole dei problemi che affronta ogni giorno, ritrovi entusiasmo sapendo che Milano stacca Napoli di oltre 50 posizioni. Reputo altrettanto ridicolo accusare i sindaci delle città che hanno perso terreno. Significa buttarla in caciara, senza analizzare quali siano realmente i problemi e le possibili soluzioni. Virginia Raggi, con la sua Roma scivolata all’85esimo posto, è stata subito bersagliata da chi ha colto la palla al balzo. Era prevedibile, funziona così. Mai lasciarsi scappare una ghiotta occasione per screditare un politico avversario.
Personalmente ho avuto altri pensieri nell’interpretare la classifica. Cos’è realmente necessario per giudicare se in un posto si vive bene o male? Lo studio di ItaliaOggi è stato sicuramente molto serio. Sono state analizzate nove dimensioni, 21 sottodimensioni e ben 84 indicatori di base. Eppure la realtà, a mio avviso, non sempre è in linea con i risultati di pur validissime analisi. Mi spiego. Non riesco a capire come sia possibile che in alcune aree del nostro Paese la popolazione sia tendenzialmente più felice con meno. Provo a riflettere in base alla mia esperienza personale. Ho 26 anni e sono piemontese, di Asti. È una piccola cittadina e, stando a quanto riporta ItaliaOggi, non se la passa male chi ci vive. O quantomeno non dovrebbe lamentarsi troppo rispetto alla maggior parte dei cittadini del meridione. Ho avuto la fortuna di trascorrere sei anni al Sud, in particolare in Campania, per studio e per lavoro. Ho riscontrato maggior povertà, servizi pubblici meno efficienti, microcriminalità più diffusa. Ma in molti casi ho percepito una serenità e una felicità di vivere difficilmente avvertibili dalle mie parti. E ciò ha sempre generato in me un po’ di invidia.
In contesti esteri di gran lunga più disagiati si rimane ancora più sorpresi. La scorsa estate ho avuto la possibilità di visitare alcuni villaggi affascinanti nel deserto del Marocco. Estrema povertà e assenza totale di supporto statale. Case d’argilla e asini come unico mezzo di trasporto. Tuttavia, tra lo stupore di fastidiosi turisti come me, si percepiva il benessere interiore della popolazione locale. Donne e uomini che con orgoglio contribuivano alla sopravvivenza del proprio villaggio e ne salvaguardavano l’identità. Non più invidia, ma imbarazzo. Un caso estremo che, a mio avviso, aiuta a capire la degenerazione della società occidentale capitalista. L’obiettivo è il prodotto, non l’individuo. Chi comanda è il mercato, non la reale volontà popolare. L’esigenza di felicità spesso non viene contemplata nei meccanismi di crescita di un Paese. Basta un dato: in Italia è aumentato di quasi l’8% in un anno il consumo di psicofarmaci utilizzati per combattere ansia, nevrosi, attacchi di panico e insonnia (Aifa), spesso causati da una società deviata.
Porre un limite alla crescita risulta impossibile. I benefici sono tanti, senza dubbio. Ma forse sarebbe opportuno iniziare a considerare seriamente quali siano gli effetti collaterali del progresso inarrestabile, valutare il loro impatto sulla qualità della vita e decidere con coraggio e senso civico quale sia la scelta più opportuna: continuare a ispirarsi agli Stati Uniti, un Paese che predica la ricerca della felicità come diritto inalienabile e vanta 45mila suicidi nel 2016 (Centers for Disease Control and Prevention), o prendere spunto dal piccolo Buthan, un Paese molto più povero degli Usa che utilizza la felicità come indicatore principale per calcolare il benessere della popolazione?
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