Cinema

Juventus e ultras, nel documentario di Daniele Segre la storia dei Drughi e di cosa era (ed è diventato) il tifo in Italia

'Ragazzi di stadio - quarant’anni dopo' è il documentario che il regista ha presentato al Torino Film Festival, a trent’anni di distanza dall’apparizione del primo striscione del gruppo in curva Filadelfia sugli spalti del vecchio stadio Comunale: un lavoro che spiega bene come è cambiato il fenomeno del tifo organizzato in Italia negli ultimi decenni

di Davide Turrini

Sciarpe, tamburi, striscioni, cariche della polizia, “me ne frego”, la tragedia dell’Heysel, “l’orgoglio di appartenenza” e “la rabbia del tifo”. C’è spazio anche per la vita da ultras al 36esimo Torino Film Festival. Ragazzi di stadio – quarant’anni dopo è il documentario che Daniele Segre ha girato a trentotto anni dal suo Ragazzi di stadio (1980) e a trent’anni di distanza dall’apparizione del primo striscione dei Drughi juventini in curva Filadelfia sugli spalti del vecchio stadio Comunale. Se nel documentario del 1980 l’analisi sociologica si allargava anche ai tifosi del Torino, qui Segre si concentra solo su quelli della Juventus. Vita da Drughi, insomma, il gruppo organizzato che tifa Juventus, nato dalle ceneri dei Fighters, e prima ancora dei Panthers. Beppe Rossi è la fonte battesimale del gruppo. Il disco musicale che porta dall’Inghilterra nel 1977 e che in un frammento video dell’epoca fa ascoltare a favore di macchina, in un attimo vintage davvero da brividi, per fare capire cosa significa “tifare” per una squadra di calcio allo stadio, è il primo mattone di un fenomeno di massa che caratterizzerà socialmente il contesto sportivo calcistico parallelo ai risultati sul campo almeno fino a fine anni Novanta.

Un attitudine verso un desiderio di condivisione collettiva che scemerà con l’avvento delle pay tv e con nuove forme di organizzazione del tifo. Non c’è nessuno sguardo censorio, giudicante o moralista, nell’osservazione di Segre di fronte a vecchi e nuovi ultras, alcuni anche con al collo una svastica o con addosso tatuati slogan del Ventennio. Segre mostra e fa ascoltare, prova a far comprendere il fatto storico in sé. Ragazzi di stadio – quarant’anni dopo attraverso interviste fronte macchina, immagini d’archivio, la ripresa di alcuni cortei pre-partita e post vittoria dell’ultimo scudetto della Juve, è un denso e approfondito documento antropologico. Nel mettere il più possibile a nudo l’oggetto e i soggetti inquadrati davanti alla videocamera di Segre emerge un contesto “familiare” dalla ritualità pubblica che pulsa e vive grazie ad una sentita e condivisa fede calcistica. C’è spazio sì per i tragici ricordi del passato (i morti di eroina nei primi anni ottanta o quelli allo stadio Heysel di Bruxelles nella finale di Coppa dei Campioni del 29 maggio 1985), ma sono soprattutto linguaggio e codici dei Drughi a finire sotto la lente d’ingrandimento.

Il “leader” ad esempio esiste “nel riconoscimento degli altri membri del gruppo”. Il “capoguerra” decide se fare un’azione o meno, prende appuntamento con i gruppi avversari e decide se scontrarsi o meno. “Oggi”, spiega uno della vecchia guardia, “si decide per un dieci contro dieci, o un venti contro venti, ma una volta tutto si faceva dentro lo stadio e purtroppo non ci permettono di farlo più”. Chiaro, la “novità” del fenomeno nato a metà anni Settanta ha subito mutazioni molto nette se lo confrontiamo agli anni Duemila. I tifosi diffidati sono quelli a cui rivolgersi con rispetto, mentre il gruppo sembra contenere almeno dalle immagine parecchie ragazze e anche ragazzi di colore. Sia gli anziani che i giovani Drughi ammettono comunque l’orientamento di estrema destra della loro tifoseria, parlando di mancanza di vergogna e di una forte idealità politica. “Urlare negro ad un giocatore non è razzismo. È sfottò che ci fa divertire tra noi”, spiega un altro drugo.

Ma è andando ancora più in profondità nel privato e nella psicologia dei singoli che Ragazzi di stadio – quarant’anni dopo scandaglia ulteriori ed interessanti dati. C’è chi riflette sulla rabbia (“è un sentimento che reprimi e non sempre controlli”); chi racconta i propri “sacrifici” personali in termini di ferie e permessi di lavoro per seguire le trasferte (“parlano di ultras come se fossimo dei drogati, degli alcolizzati, dei ladri, ma io ho un curriculum, ho il libretto di lavoro, ho sempre lavorato nella mia vita”); e chi mostra l’orgoglio di un’appartenenza collettiva che si autocelebra nella sua funzione di supporto alla squadra di calcio cancellando il divismo delle celebrità: “A noi non frega nulla dei giocatori, l’abbiamo sempre detto sia a Zoff che a Pippo Inzaghi – spiega un altro ultras – un giorno dissi a Vialli ‘tu senza di noi saresti solo un borghese in giro per Cremona’, mentre un’altra volta fu Zidane a capire il messaggio, dedicandoci tempo, perché i tifosi riempiono il cuore”. “Sono grato ai Drughi per avermi permesso di entrare nel loro mondo, difficile e controverso. Grazie alla loro fiducia ho potuto, dopo quarant’anni, parlare nuovamente degli ultrà e offrire uno spunto per una riflessione necessaria al fine di capire cosa sta succedendo in Italia, al di là della tifoseria calcistica”, ha affermato il regista.

“Attraverso le storie dei protagonisti, infatti, si affrontano le trasformazioni sociali e ideologiche che il nostro paese ha attraversato in questi decenni. I protagonisti non sono solo i “cinquantenni” personaggi dei miei film precedenti, ma studenti, operai, disoccupati che vivono grazie alla comune fede juventina che, come allora, è l’unica condizione in cui si sentono protagonisti, si riconoscono in un gruppo, in una fede. Lo stadio, che rimane sullo sfondo, è un luogo simbolico che racconto attraverso le vite di chi lo popola. Il mio film è un viaggio alla scoperta di un universo umano volutamente “contro” in grado di produrre aggregazione e consenso non solo delle fasce sociali ai margini e che non è ancora, così come non lo era quarant’anni fa, analizzato in modo approfondito dai media”.

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