C’è la Vespa verde di Caro Diario esposta al Museo del Cinema di Torino. Invece, a poche centinaia di metri dal Museo, nelle sale del 36esimo Torino Film Festival, c’è stata la prima proiezione di Santiago, Italia. L’ultimo film diretto da Nanni Moretti dove si racconta dell’opera di salvataggio di oltre 250 cileni che l’ambasciata italiana a Santiago compì all’indomani del colpo di stato del 1973. E visto che il documentario è pieno di analogie politiche (in)dirette e di ponti storico-culturali (im)possibili con l’oggi, anche noi ci permettiamo di tracciare una linea tra passato e presente dell’autore in questione: il Moretti cinematograficamente originale di ieri e quello schivo, defilato, sulla difensiva di oggi.
Da quando il regista di Ecce bombo si esibì nel monologo “D’Alema di qualcosa di sinistra” (Aprile, 1998) e salì su quel palco di Piazza Navona (febbraio 2002) a protestare contro l’inadeguatezza della classe dirigente del Partito Democratico, senso dell’opera d’arte e opinione politica non più mediata dal mezzo cinema si sono intrecciate, rimescolate e inevitabilmente sovrapposte. Pregio? Difetto? Ancora in vent’anni non l’abbiamo capito. Ma se non partiamo da questa premessa non capiamo perché Santiago, Italia sia stato ideato e portato a termine. Nell’unica intervista rilasciata al settimanale Il Venerdì (unica in assoluto perché Moretti non incontrerà la stampa) il regista risponde alla domanda di Mario Calabresi (“Perché parlare del golpe in Cile oggi”) così: “Mentre giravo me lo chiedevano spesso e non sapevo cosa rispondere. Poi finite le riprese, è diventato ministro dell’Interno Matteo Salvini e allora ho capito perché ho girato quel film. L’ho capito a posteriori”. Ad ognuno la sua vertigine di significato come riflessione politica dopo queste parole. Quello che conta così in queste righe è dire che Santiago, Italia ha ben teso proprio questo ossessivo elastico tra passato storico cileno e un oggi italiano che sembra continuamente sballottato oltre le parole e le immagini proposte.
Lodevole l’idea di non chiedere opinioni ad esperti. A parlare fronte macchina è la gente comune, persone che hanno vissuto il sogno del governo di Unità Popolare (comunisti, socialisti e cattolici) di Salvador Allende, l’orrore immediato della sanguinaria dittatura di Pinochet, e poi l’asilo politico e la vita successiva in Italia. Operai, impiegati, assessori comunali, imprenditori, giornalisti, ancora giovanissimi, transitati in modo clandestino oltre quell’angolo di muro più basso dell’ambasciata italiana di Santiago nelle settimane successive all’11 settembre 1973. Solo che per arrivare al nucleo pulsante dell’opera, alla curiosità storica, all’ignoto ed enorme dettaglio di solidarietà umana ed internazionale che avvenne, ci vuole un bel po’.
Dopo un lungo imbastire di trama e ordito da sussidiario sul periodo 1970-1973, dopo persino una rievocazione pulp delle torture alle donne compiute dai militari golpisti, Moretti lascia meno della metà della durata del film – trenta-trentacinque minuti su ottanta – al racconto della vita da accampati dentro l’ambasciata, delle speranze e dei drammi dei singoli, della paura dell’imprevedibile agire dall’esterno. Come se non ci fosse troppo materiale, o troppa determinazione, nell’offrire all’occhio spettatoriale (Moretti è sempre stato un filino pudico e stitico in termini di godimento visivo), mentre il baricentro di senso si adagia su parallelismi e analogie politiche tra quel dato storico e la nostra contemporaneità. L’atto della fuga da torture e fucilate fasciste cilene è affiancato alla fuga dei migranti dall’Africa verso il Mediterraneo di oggi. L’idillio e la festa attorno allo schieramento politico di centrosinistra cileno perduto con il bombardamento della Moneda allora, diventa un simbolico rimando alla mesta fine del resistibile centrosinistra italiano di oggi. E in questo doppio binario ci rimane incastrata tra l’altro la cosiddetta “volontà popolare”, la “maggioranza uscita dalle elezioni” che un estimatore del governo giallo-verde italiano potrebbe tranquillamente fare sua direttamente dal pamphlet morettiano visto che era uno dei concetti chiave delle appassionate arringhe di Allende e dei militanti del fronte unito social-comunista che sentiamo nel film.
Non mancano comunque le evocazioni delle classiche alla Moretti, le nostalgiche madeleine sulle eccellenze sanitario-scolastico-lavorative dell’Emilia Rossa o una strana invasione di campo, anzi in campo, fisico-coroporea di Moretti, un intervento stilisticamente alla Michael Moore. Quando il regista romano “incastra” il vecchio torturatore incarcerato da tempo che svela di aver accettato l’intervista per l’imparzialità del documentario, eccolo comparire a favore di camera per dire: “Io non sono imparziale”. Figuriamoci, di fronte alla dittatura di Pinochet chi potrebbe non esserlo. Solo che questa tensione ieri-oggi, Cile-Italia, ci scusi il buon Nanni ma ci sembra un tantino autoreferenziale e tirata per i capelli o che, nella sua definitiva elaborazione cinematografica, non abbia quello smalto, quella grinta, quella contemporanea ragion d’essere. In sala dal 6 dicembre grazie ad Academy Two.