Una condanna e quattro patteggiamenti. Così si chiude il processo scaturito dall’inchiesta ‘Listopoli’. Un’indagine aperta dopo lo scandalo scoppiato a gennaio del 2017, quando la madre di una ragazza di 23 anni affetta da sindrome di down scoprì che la figlia era stata candidata a sua insaputa nella lista ‘Napoli Vale’, a sostegno della candidata del Pd alle elezioni comunali del 2016 a Napoli, Valeria Valente (senatrice dem e vicepresidente del gruppo Pd). Quello della 23enne, però, non era l’unico caso. Nove i nomi dei ‘candidati fantasma’ su cui la Procura cercò di fare luce, tra cui quello di un avvocato e di una docente napoletana, che apprese dagli uomini della Guardia di finanza di essere stata candidata. Tra gli indagati nell’inchiesta anche Gennaro Mola, coordinatore della campagna elettorale e compagno dell’ex candidata del Pd, la quale ha sempre sostenuto di essere all’oscuro di quanto fosse accaduto nel suo comitato elettorale.
L’EPILOGO DEL PROCESSO – Mola è tra i quattro imputati che hanno patteggiato: è stato condannato dal gup Chiara Bardi a un anno di reclusione (pena sospesa). Gli altri sono l’ex consigliere comunale Antonio Borriello e l’attuale capogruppo del Pd al Comune, Aniello Esposito, che sono stati condannati a sei mesi di reclusione (pena sospesa). A febbraio 2018 aveva già patteggiato una pena di sei mesi anche il consigliere comunale Salvatore Madonna. L’unico a scegliere il rito abbreviato era stato Renato Vardaro, dirigente del partito che, in occasione della campagna elettorale, aveva collaborato a stretto contatto con Mola: per lui è arrivata una condanna a dieci mesi (pena sospesa anche in questo caso), oltre al riconoscimento di un’ammenda di 1200 euro per ciascuna parte civile.
LO SCANDALO – Il caso emerse quando ai singoli candidati arrivò la richiesta da parte della Corte di appello di certificare le spese elettorali. La richiesta arrivò alla ragazza down, ma non solo. Diverse le persone che iniziarono a chiedere spiegazioni. Alla fine scoppiò il caso. E nelle prime settimane di indagine i dati degli uffici elettorali furono incrociati proprio con quelli sulle rendicontazioni delle spese arrivati alla Corte d’Appello. L’attenzione degli inquirenti si concentrò subito sui consiglieri comunali, perché mentre alle elezioni del 2016 il Pd fece autenticare i candidati da un notaio, Valeria Valente fece ricorso ai consiglieri comunali che, in qualità di ufficiali pubblici, potevano certificare l’autenticità delle candidature.
L’INCHIESTA – Il nome del consigliere comunale del Pd Salvatore Madonna fu il primo a essere iscritto nel registro degli indagati nell’inchiesta condotta dal pm Stefania Buda e coordinata dal procuratore aggiunto Alfonso D’Avino. Perché a lui gli inquirenti avevano potuto attribuire la certificazioni delle 9 firme di altrettanti candidati fantasma, effettuate tutte in un solo giorno, ossia il 6 maggio 2017, alla vigilia del termine di presentazione della scadenza delle liste. Già dai primi interrogatori ammise di aver firmato in calce a liste che gli erano state portate dallo staff politico. A quel punto l’attenzione si spostò sui vertici, ritenuti responsabili di aver fatto certificare alcune candidature senza che i diretti interessati ne fossero a conoscenza. Mola ha sempre respinto l’accusa di brogli per favorire la candidata Valente, anche se alla base stessa del patteggiamento c’è l’ammissione di irregolarità probabilmente dovute alle frenetiche ore che hanno preceduto la consegna delle liste elettorali in prefettura. Il pm Buda ha ricostruito quelle ore, anche attraverso una perizia grafologica. “Vardaro compilava materialmente i modelli su specifica indicazione di Mola – è la ricostruzione dell’accusa – che gli forniva i nominativi dei candidati, scritti a mano su foglietti volanti”. L’ultimo passaggio era affidato a Madonna: “Dopo la redazione, Mola sottoponeva i modelli sopra indicati al consigliere comunale autenticatore Salvatore Madonna”. Che, per sua stessa ammissione, certificava in calce “in assenza dei candidati” e “senza che queste persone siano mai state interpellate – scriveva il pm – né messe a conoscenza della propria candidatura”.