Al sesto piano del Cedir, sede della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, c’è chi ha descritto la sentenza “Gotha” come inimmaginabile 10 anni fa. Forse è così. Di sicuro con le inchieste “Mamma Santissima”, “Fata Morgana” e “Sistema Reggio”, il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo e i sostituti della Dda Stefano Musolino, Roberto Di Palma e Walter Ignazitto sono finalmente riusciti in quello che, nello storico maxi-processo “Olimpia”, si riusciva solo a intravedere. È stato colpito il famoso “terzo livello”, il direttorio delle cosche, quella componente riservata della ‘ndrangheta che manovra i politici, decide dentro i palazzi delle istituzioni ed è legata ad ambienti massonici.
L’ASSOCIAZIONE SEGRETA
Leggendo le 2500 pagine scritte dal gup Pasquale Laganà, infatti, si percepisce come, con la sentenza “Gotha”, è stata riconosciuta non solo l’esistenza dell’associazione mafiosa ma anche di un’associazione segreta capace di infiltrarsi negli enti locali dettandone gli indirizzi politici. Promossa dall’avvocato Paolo Romeo (che ha scelto il rito ordinario, nda), in sostanza si tratta di un’associazione che “ha rappresentato una sorta di evoluzione delle strategie messe in campo da Romeo per etero-condizionare l’azione di governo locale ai fini illeciti del sodalizio criminale di stampo mafioso di cui lo stesso Romeo fa parte da oltre trent’anni”. Nel troncone del processo conclusosi con il rito abbreviato, il principale imputato è l’avvocato Giorgio De Stefano condannato a 20 anni di carcere. Cugino dei boss Paolo, Giovanni e Giorgio De Stefano (uccisi negli anni ‘70 e ’80), è ritenuto, assieme a Romeo, una delle una delle due teste pensanti della ‘ndrangheta reggina.
I “SOGGETTI CERNIERA”
Entrambi vengono definiti dai pm come “soggetti ‘cerniera’ che interagiscono tra l’ambito ‘visibile’ e quello ‘occulto’ dell’organizzazione criminale”. Soggetti ‘cerniera’ che, stando alle informative del Ros dei carabinieri, a Reggio hanno sostenuto per anni il centrodestra e l’ascesa di Giuseppe Scopelliti prima a sindaco e poi a governatore della Calabria. In questa logica, infatti, sarebbe maturata anche la carriera politica dell’ex assessore comunale e regionale Antonio Caridi – imputato nel processo con il rito ordinario – che, a un certo punto, è diventato senatore. Nel 2014, invece, il direttorio delle cosche ha tentato di infiltrarsi nelle file del Partito democratico spostando i suoi voti a sinistra in occasioni delle regionali e comunali.
L’AVVOCATO ‘NERO’ GIORGIO DE STEFANO
Dopo aver ricostruito le dichiarazioni dei vari pentiti su Giorgio De Stefano, il gup Laganà lo inquadra, “già a partire dalla fine degli anni ’90, al vertice della ‘ndrangheta, in un contesto criminale che interagisce stabilmente, attraverso associazioni segrete caratterizzate dalla ‘segretezza’ dei ‘fini’ e dalla ‘riservatezza’ dei ‘metodi’ (massoneria deviata), con il mondo dell’imprenditoria, della finanza, della magistratura e, più in generale, delle Istituzioni (organi amministrativi e politico- rappresentativi degli enti locali e del governo centrale)”. Condannato definitivamente per concorso esterno nel processo “Olimpia”, all’imputato De Stefano Giorgio – si legge nella sentenza – “è ascritto il ruolo apicale, dirigenziale ed organizzativo della componente ‘segreta o riservata’ della predetta organizzazione criminale di tipo mafioso”. In altre parole, l’avvocato De Stefano – che una trentina d’anni fa è stato anche consigliere comunale di Reggio Calabria – da una parte dirigeva e organizzava la “componente occulta della ‘ndrangheta” e dall’altra, una volta arrestato il boss Giuseppe De Stefano, suo nipote, guidava la cosca di appartenenza assieme all’altro nipote Dimitri De Stefano condannato, anche lui a 13 anni e 4 mesi di carcere. Era Giorgio De Stefano il “regista occulto” della famiglia di Archi nonostante mantenesse una “condotta improntata a mantenere una certa distanza, almeno in apparenza, rispetto alla componente ‘armata’ del sodalizio”. La regola viene sintetizzata in un’intercettazione finita agli atti del processo: “Non si muove foglia ad Archi se non parlano… se non parlano con Giorgio De Stefano…”. “E non è affatto casuale – scrive sempre il gup – se Fiume (l’ex killer dei De Stefano oggi collaboratore di giustizia Nino Fiume, nda), nell’indicare l’avvocato Giorgio come il consigliori della famiglia (‘un mafioso di vertice che dà i consigli, non un mafioso da quattro soldi’) lo indica come erede di quelle relazioni riservate che il defunto boss Paolo (De Stefano, nda) aveva iniziato ad intessere ed a coltivare sin dagli anni ’70”.
I DE STEFANO E L’EVERSIONE NERA
Erano gli anni in cui la cosca De Stefano era in contatto con personaggi legati alla destra eversiva. Non è un caso che Franco Freda trascorse una parte della sua latitanza in Calabria dove il connubio tra i De Stefano e l’eversione nera è “da rintracciarsi nel periodo antecedente all’inizio della prima guerra di ‘ndrangheta e, in particolare, nel periodo di svolgimento del summit di Montalto nell’ottobre dell’anno 1969, in occasione del quale l’organizzazione avrebbe dovuto ‘formalizzare’ l’adesione a progetti eversivi anche attraverso il fattivo ausilio in azioni di stampo terroristico”. Sono quei legami – secondo il Tribunale – “che stratificano e consolidano la potenza dei De Stefano, la quale si fonda non solo sulla ‘nota’ e ‘visibile’ componente operativa (quella incarnata, fra gli altri, da Carmine, Giuseppe e, all’occorrenza, Dimitri De Stefano) ma, soprattutto, sulla capacità di intessere riservatamente relazioni con il mondo imprenditoriale, politico ed istituzionale, nonché con gli ambienti massonici, di cui hanno dato prova, con diversità di ruolo e di ‘operatività’, i coimputati Giorgio De Stefano e Paolo Romeo”.
IL PENTITO: “LA MASSONERIA È NELLA ‘NDRANGHETA”
A proposito sarebbe stata proprio la massoneria lo strumento alla base di quello che il gup definisce “il legame biunivoco” tra le cosche e gli esponenti politici locali: “La massoneria – è scritto sempre nella sentenza – ha costituito per la ‘ndrangheta un modello organizzativo perfettamente rispondente alle nuove istanze di segretezza ‘interna’ e di elitarismo criminale”. Questo rapporto “di pari dignità illecita” tra massoneria e cosche, i pm lo hanno spiegato anche attraverso le dichiarazioni del pentito Cosimo Virgiglio, secondo cui “il mondo massonico entra nella ‘ndrangheta e non viceversa”. Ne è venuto fuori un “sistema allargato di potere” che ha come obiettivo finale quello di “garantire alla componente massonica, fortemente politicizzata, la gestione dei flussi elettorali” ed alla componente ‘ndranghetistica il “consolidamento degli ingenti capitali sporchi, già formati, che andavano ricollocati sul mercato, anche estero, mediante strumenti finanziari evoluti, gestiti attraverso gli appartenenti alla massoneria”. Il consolidamento di questo sistema di potere, in cui convivono “in osmotico interscambio di uomini e mezzi, elementi di vertice del sodalizio criminale ed esponenti della società civile, dell’associazionismo, delle istituzioni, delle forze dell’ordine, della magistratura, è stato reso possibile proprio grazie allo stretto legame ‘ndrangheta-politica”. Un rapporto che risale, non casualmente, al moti di Reggio Calabria degli anni ’70 quando si sono registrati legami strettissimi “tra esponenti dei movimenti politici di Avanguardia Nazionale e Ordine Nuovo, tra i quali il terrorista di estrema destra Franco Freda, ed elementi di vertice della ‘ndrangheta, nella specie il defunto boss Paolo De Stefano”.
LA ‘NDRANGHETA E I PEZZI DELLO STATO
Che le cosche dialogavano con pezzi infedeli dello Stato era già emerso nell’inchiesta “Meta” nata dall’indagine sulla cattura del boss latitante Pasquale Condello, e da cui ha preso le mosse l’operazione “Mammasantissima”. Nel covo di Condello, infatti, il 18 febbraio 2008 il Ros ha trovato un appunto scritto dal boss che si lamentava con un “ignoto destinatario certamente da identificarsi in un rappresentante togato della dell’ufficio giudiziario reggino”. “Lei – scrisse di suo pugno Condello con errori grammaticali probabilmente voluti dallo stesso boss – da quando è venuto a Reg. Cal. e sono moltissimi anni A preso accordi con delle cosche favorendoli nei l’horo processi e questo e sotto gli occhi di tutti. Lei da queste cosche a preso moltissimi soldi, e si è assunto l’onere di continuare la guerra con la sua penna a delle persone oneste. Lei non può indossare la toga per scopi personali, o solo, per difendere dei traffici di droga e assassini. Solo perché le danno moltissimi soldi e combattere ingiustamente persone con le mani pulite. Tutto questo finirà”. Un pizzino finito agli atti del processo “Gotha” assieme a una “inquietante espressione sibillina” pronunciata da Pasquale Condello al momento dell’arresto e riportata dal colonnello Valerio Giardina durante la sua deposizione nel processo “Meta”: “Se ne vedranno delle belle a Reggio Calabria perché si sono rotti determinati equilibri”. Nella sentenza di oggi, il gup chiarisce che si trattava di equilibri che “non erano certo esclusivamente di carattere criminale, ma coinvolgevano, i rapporti tra poteri occulti e ambiti riservati della ‘ndrangheta”.