Domanda: quanti tra i venti “potenti della Terra” che si riuniranno durante il fine settimana in quel di Buenos Aires vorrebbero trovarsi – e in queste ore di fatto mentalmente vi si trovano – in qualche altra parte del mondo? Risposta: pressoché tutti. O, perlomeno, pressoché tutti i “pesi massimi” che in queste ore sono volati – non senza qualche assai preoccupante incidente di percorso (vedi il caso del cancelliere tedesco, Angela Merkel) – in direzione del Rio de la Plata. E questo, probabilmente, a cominciare proprio dal padrone di casa, il presidente argentino Mauricio Macri. Ovvero: a cominciare dal capo di Stato che tre anni fa – fresco d’un trionfo elettorale presentato come il presupposto d’un agognato “ritorno al mondo dell’Argentina” dopo gli anni della cleptocrazia protezionista dei Kirchner – s’era molto baldanzosamente offerto come organizzatore del “magno evento”. Venghino signori venghino. Venghino e, soprattutto, invertano capitali e speranza in quest’Argentina che – per l’ennesima volta – è tornata a marciare, in sintonia con le leggi di mercato, lungo i sentieri delle sue sempiterne “magnifiche sorti e progressive”.

Strana storia quella di Macri. Tre anni fa aveva vinto promettendo al Paese una graduale ma assai decisa politica di riforme tese a domare i due demoni – l’inflazione e il deficit – ereditati da quello che i suoi predecessori, i coniugi Kirchner, al potere tra il 2003 ed il 2015, amavano chiamare “el modelo”. E destinata, vinta questa battaglia, a garantire il ritorno a una crescita significativa e sostenuta, grazie soprattutto all’apertura verso l’esterno. Nel maggio del 2017, i risultati delle elezioni di mezzotermine avevano, con una sonora vittoria di Cambiemos, il partito del presidente, confermato e rafforzato – pur in assenza misurabili risultati – il consenso a questo piano d’azione.

Non è, da allora, passato che un anno o poco più. Ma sembra un secolo. Perché, da allora – per una serie di errori politici, per una perversa combinazione di turbolenze nei mercati valutari e, soprattutto, per l’intrinseca e contraddittoria illusorietà del piano macrista – tutto è andato per il verso sbagliato. Il peso argentino ha perso più del 30% del suo valore, costringendo la Banca centrale a prosciugare le riserve nel tentativo (vano) di sostenerlo. L’inflazione – al 20% – resta quella che, presumibilmente, era prima dell’avvento di Macri (presumibilmente, perché, sotto i Kirchner, le cifre dell’Indec, l’istituto di statistica argentino, venivano notoriamente falsificate). Dopo tre anni di apertura al mondo, non è stato il mondo a venire in Argentina, ma è stata l’Argentina ad andare, cappello in mano, al mondo – o, fuor di metafora, al Fondo monetario internazionaleper chiedere un prestito di 50 miliardi di dollari che ha, più o meno a ragione, d’acchito evocato, come spaventevoli spettri, cause e protagonisti del cataclisma del 2001.

E a completare questo molto depressivo quadro è infine arrivato – più devastante, sul piano dell’immagine e dell’autostima, d’ogni crisi economica – il rinvio causa disordini del secondo incontro, nello stadio Monumental, tra Boca e River per la finale della Copa Libertadores. L’Argentina “aperta al mondo” si è rivelata tanto prigioniera delle proprie magagne intestine da non poter organizzare, dentro si sé, neppure quella che era stata enfaticamente annunciata come la “partita del secolo”. La prima finale tutta argentina. Tanto argentina che ora si giocherà a Madrid.

Né il panorama si rallegra se lo sguardo si sposta dai padroni di casa agli ospiti. Narrano le cronache come Donald Trump – il più potente tra i potenti nonostante l’impresentabilità del personaggio – sia sbarcato a Buenos Aires d’umor nero, accompagnato dalle (per lui) molto ferali notizie sul fronte delle indagini del Russiagate. Notizie che lo hanno oltretutto spinto – per evitare una replica esponenziale della figuraccia consumatasi a luglio in quel di Helsinki – a disdire il programmato incontro con il suo adorato Vladimir Putin (ragione ufficiale della cancellazione: la crisi ucraina). E, del resto, Russiagate a parte, nessuno poteva attendersi da Trump – nemico giurato, nel nome dell’”America first“, d’ogni forma di cooperazione internazionale, dall’Onu, alla Nato, a tutti i “G” di qualsivoglia numerazione – un qualche consolante apporto in questo contesto.

L’altro gigante, la Cina, è ancora una volta arrivata col portafoglio ricolmo, ma sminuita dai contraccolpi che la sua politica di pesanti investimenti in infrastrutture – la cosiddetta “one belt, one road” la cui natura imperialista va implacabilmente emergendo – sta provocando in molti Paesi. Theresa May è sbarcata in Argentina portandosi appresso, come un Atlante incurvato ed esausto, il fardello di quella tragica farsa che va sotto il nome di Brexit. Né le cose vanno meglio sull’altra sponda della Manica, dove l’Europa tutta mostra, in ogni sua parte, le sanguinanti ferite inferte dalle forze centrifughe, nazionaliste e autoritarie, che sempre più la dilaniano. E, come in una sorta di grottesca allegoria, per un errore protocollare, proprio il più europeista dei suoi leader, il francese Emmanuel Macron, non ha trovato nessuno – neppure il suo ambasciatore – ad accoglierlo all’aeroporto di Ezeiza. L’unico a cui ha potuto stringere la mano, discesa la scaletta dell’aereo, è stato un lavoratore aeroportuale che, per colmo d’ironia, indossava un giubbotto giallo. A regalare a questo G20 un unico momento di molto sinistro gaudio hanno fin qui provveduto i due forse più “imbarazzanti” ospiti del vertice. Vale a dire: il principe saudita Mohammed bin Salman e Vladimir Putin, pronti a scambiarsi davanti alle telecamere sorrisi panoramici e uno spettacolare high five, seguito da una molto intensa e gioiosa conversazione. Di che cosa avranno discusso i due? Del metodo migliore per eliminare – veleno o strangolamento? – i giornalisti scomodi?

Si legge nell’ordine del giorno di questo G20 che i temi in discussione saranno, a dieci anni dalla devastante crisi finanziaria del 2008, il lavoro, le infrastrutture per lo sviluppo e la sostenibilità delle politiche di alimentazione. Tutte cose di cui il mondo ha un impellente bisogno. E che nella tristissima Buenos Aires di questi giorni – è fin troppo facile pronosticare – nessuno ha davvero intenzione di discutere.

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