Sono trascorsi 30 anni da quel 2 dicembre 1988, data in cui Benazir Bhutto divenne la prima donna a essere eletta primo ministro in un Paese islamico, il Pakistan. Benazir Bhutto ce l’aveva fatta. Una delle poche donne al mondo che era riuscita a sfatare il cliché che vede le donne in molti Paesi musulmani essere considerate come delle nullità. Non è facile essere donne nell’Islam ed è ancora più difficile quando si tenta e si riesce poi a ottenere un ruolo di prestigio: un ruolo decisionale per un’intera nazione, un ruolo che per alcuni è prerogativa esclusivamente degli uomini. Ma Benazir ci era riuscita. Già è molto difficile nella nostra democratica Europa ottenere un ruolo alla pari di un uomo, dovendo dimostrare di saper far bene il proprio lavoro, il doppio se non il triplo di un uomo. In un Paese islamico, nel quale il ruolo della donna è sempre subalterno, è quasi impossibile.

Era nata a Karachi, in Pakistan, nel 1953. Suo padre, Zulfiqar Ali Bhutto, era stato il primo ministro del Pakistan dal 1971 al 1973, e suo nonno Shaw Nawaz Bhutto era stato un uomo celebre, uno degli esponenti principali del movimento indipendentista pakistano. Benazir ha trascorso quasi l’intera sua vita in politica accanto a suo padre, che venne giustiziato nel 1979 dopo essere stato condannato a morte. Nel 1985 subì anche la perdita del fratello Shanawaz, morto in circostanze sospette a Cannes. Una vita, la sua, in cui la politica e la morte sono le due costanti che si alternano l’un l’altra, rafforzandola ogni volta davanti alle sfide della vita. E i gravi dolori per la perdita dei suoi cari le danno l’impulso per offrire un solido cambiamento al suo Paese. Il 2 dicembre 1988, alla giovane età di 35 anni, Benazir Bhutto ricopre la carica di primo ministro del Pakistan. Una carica che lascerà nel 1990, in quanto accusata di corruzione.

Nel 1996, in seguito ad attentato terroristico avvenuto nel corso di un comizio, muore anche suo fratello Murtaza. Nell’ottobre del 2007, al rientro in patria dopo otto anni di esilio volontario, subisce un attentato nel tragitto dall’aeroporto alla sua abitazione dove rimane illesa, ma perirono 193 persone e ci furono circa 550 feriti.  Nonostante i lutti e gli attentati, la Bhutto ha sempre continuato il suo lavoro comparendo in pubblico e ottenendo sempre più consenso popolare. Il 27 dicembre del 2007, nel pieno della campagna elettorale, dopo aver concluso l’ultimo comizio a Rawalpindi – che l’avrebbe vista di sicuro nuovamente vincitrice – subisce all’età di 54 anni un attentato mortale. Moriranno con lei anche altre 20 persone. Poco prima di essere uccisa, la Bhutto aveva parlato proprio dei rischi che sapeva di correre: “Metto la mia vita in pericolo e sono qui perché credo che questo Paese sia in pericolo”.

Al momento della morte, Benazir Bhutto era la leader di uno dei principali partiti dell’opposizione al governo del presidente e capo dell’esercito Pervez Musharraf, che era arrivato al potere con un colpo di Stato nel 1999 e vi era rimasto fino al 2008. A volere morta Benazir erano in tanti, dagli avversari politici ad alcuni membri della propria famiglia e soprattutto gli islamici. Le donne della famiglia Bhutto erano infatti state le prime donne pakistane a non indossare i vestiti islamici, avevano studiato tutte all’estero e avevano ricevuto una cultura occidentale. Benazir era l’emblema del riscatto della donna nel mondo musulmano: la prima figura femminile al capo di un governo islamico.

La morte di Benazir avrà infatti un impatto notevole nel processo di emancipazione femminile che vedeva proprio in lei la più idonea rappresentante. Sono trascorsi ben 11 anni dalla sua morte e mi sarebbe piaciuto oggi raccontare le storie di altre donne che abbiano acquisito ulteriori diritti in Pakistan. Invece la cronaca ci riporta ai soliti ennesimi crimini in cui la donna è sempre e solo vittima. Era pakistana anche Hina Salem, la ragazza uccisa nel 2006 in Italia dai parenti, sgozzata e sepolta nel giardino di casa con la testa rivolta alla Mecca, perché voleva essere “normale” invece di seguire il rituale del matrimonio combinato. Era pakistana anche Sana Cheema, la 25enne morta lo scorso aprile 2018 durante un soggiorno nel suo Paese di origine.

Anche Malala Yousafzai è pakistana, la giovane attivista premio Nobel per la pace che si batte per i diritti civili e per il diritto all’istruzione nel suo Paese, anche lei vittima superstite di un attentato. E pakistana è Asia Bibi, la donna rilasciata da qualche settimana dopo nove anni di carcere per blasfemia, che oggi è nascosta in una località segreta in Pakistan per sfuggire agli estremisti islamici che la vorrebbero vedere morta. Tutte donne, tutte prigioniere della propria tradizione, cultura o religione. Benazir Bhutto ci aveva provato, altre ci hanno provato e altre stanno provando con grandissime difficoltà. Se ci proviamo in tante, seguendo l’esempio e l’insegnamento a non mollare mai di Benazir, la speranza di un cambiamento non rimarrà solo un’utopia ma concreta realtà.

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