Dicesi sindrome di Peter Pan quella situazione psicologica in cui si trova una persona che si rifiuta o è incapace di crescere, di diventare adulta e di assumersi delle responsabilità. Applicata al calcio, potrebbe chiamarsi sindrome di Spalletti: le sue squadre costruiscono sempre percorsi importanti, macinano risultati, spesso fanno anche bel gioco; al momento più importante, però, mancano sempre di qualcosa. Anche l’Inter rischia di caderne vittima.
Dopo il Tottenham, domenica sera i nerazzurri hanno perso un’altra grandissima occasione contro la Roma: quella di entrare definitivamente in una dimensione diversa, da grande squadra. Un’altra partita giocata più o meno bene (paradossalmente meglio a Londra che all’Olimpico, nonostante il risultato), con qualità negli interpreti e nell’interpretazione, dimostrando di potersela giocare alla pari contro tutti, su due campi difficili. Eppure in entrambi i casi è mancato qualcosa. In Inghilterra un po’ di mentalità e di coraggio, col limite di speculare sullo 0-0 e finire inevitabilmente puniti come quasi sempre accade nel calcio a chi si accontenta. All’Olimpico un po’ di cattiveria e precisione, per portare a casa la vittoria in un match in cui i nerazzurri hanno dato quasi sempre l’impressione di essere superiori (e probabilmente lo erano davvero, almeno di questa Roma così raffazzonata).
C’è differenza anche fra i rimpianti, però. La sconfitta contro il Tottenham fa molto più male (adesso la qualificazione in Champions è a serio rischio, dipende tutta dal Barcellona) ma è anche molto più accettabile: ci sta perdere a Wembley, contro una delle squadre più forti della Premier League. Ci vuole tempo per conquistare consapevolezza in Europa: la stessa Juventus di Conte che spadroneggiava in Serie A ci mise tre anni di figuracce continentali prima di diventare una potenza. Non si poteva pretendere che l’Inter, alla prima gara da dentro fuori dopo sei anni di assenza dalla Champions, fosse già pronta: serve pazienza.
Contro la Roma era diverso. Un po’ perché in Italia l’Inter ha già intrapreso un percorso importante, acquisendo una certa mentalità che tutto sommato ha mostrato pure ieri all’Olimpico: nel bene e nel male, tra mille errori e imprecisioni, ha fatto la partita per 90 minuti, fuori casa. Un po’ perché tutto sembrava essere dalla parte dei nerazzurri: le assenze in casa giallorossa (Dzeko, El Shaarawy, De Rossi e Pellegrini), gli episodi (sempre in vantaggio nei momenti più difficili), persino l’arbitraggio di Rocchi e del Var che si sono persi per strada un rigore evidente su Zaniolo sul punteggio di 0-0. Un errore giudicato “inconcepibile” dal presidente dell’Aia, Marcello Nicchi. Nonostante ciò, l’Inter non è riuscita a battere una Roma ridotta ai minimi termini, che ha giocato una gara generosa (la migliore dell’ultimo mese), dimostrando di essere ancora dalla parte del suo allenatore Eusebio Di Francesco, ma comunque molto modesta allo stato attuale.
Sul piano del risultato Spalletti può comunque sorridere: un pareggio all’Olimpico non si butta mai via, specie con questa situazione di classifica. In Serie A gli obiettivi veri sono solo due, il primo posto o il quarto, non c’è via di mezzo, il secondo non conta quasi nulla: e visto che lo scudetto ormai è andato (o forse non è mai stato un’opzione realistica), resta la qualificazione in Champions; tenere la Roma a nove punti di distanza col ritorno da giocare a San Siro è una conquista importante. Però l’Inter era entrata nella prima curva decisiva della stagione sapendo di dover affrontare tre grandi partite: Tottenham, Roma e Juventus. Le prime due sono andate così così, se anche la terza dovesse finir male (ed è possibile: una sconfitta a Torino è nell’ordine delle cose) ecco che l’esame di maturità, il salto di qualità definitivo sarebbe quantomeno rimandato. Nessun dramma, per carità: tutti gli obiettivi stagionali sono ancora alla portata. Ma nessuna grande Inter: solo questa nuova Inter di Spalletti, che chissà se crescerà mai davvero, come il suo tecnico.
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