"O si cambia passo o andiamo a votare", era stata la sentenza pronunciata da Giorgio Squinzi il 2 febbraio 2014. Venti giorni Matteo Renzi saliva a Palazzo Chigi. Da due mesi viale dell'Astronomia chiedeva 10 miliardi per il cuneo fiscale, come due anni prima aveva lavorato ai fianchi l'esecutivo Berlusconi che si stava sbriciolando sotto i colpi dello spread e degli speculatori internazionali
Enrico Letta ancora la sogna di notte. “O si cambia passo con il governo esistente o andiamo a votare“, era stata la sentenza pronunciata il 2 febbraio. Venti giorni dopo il presidente del Consiglio era a Palazzo Chigi a consegnare la campanella nelle mani di Matteo Renzi. Con quelle parole Giorgio Squinzi aveva dato l’estrema unzione al governo nato dalle politiche del 2013. Da due mesi e senza sosta Confindustria chiedeva alla manovra coraggio e intraprendenza, come due anni prima aveva lavorato ai fianchi l’esecutivo Berlusconi che si stava sbriciolando sotto i colpi dello spread e degli speculatori internazionali. Matteo Salvini ha la memoria corta quando dice che qualcuno a viale dell’Astronomia “è stato zitto per anni”.
Nel 2013, ad esempio, Squinzi aveva martellato il governo fin da ottobre. Da quando cioè, con la manovra che cominciava a prendere forma, era andato dal premier ad avanzare la sua richiesta principale: 10 miliardi per il cuneo fiscale, la somma delle imposte che pesano sul costo del lavoro. “Sono il minimo – spiegava – per fare un salto di qualità e per dare una spinta alla crescita”. Nella lista dei desiderata c’erano poi incentivi all’esodo dal lavoro e sgravi per giovani e donne, la detassazione degli investimenti in ricerca e il credito d’imposta per gli investimenti pubblico-privati nelle infrastrutture. Alla fine di miliardo ne era arrivato uno solo e 4 mesi e decine di attacchi dopo per chiedere “più coraggio”, il numero uno degli industriali si presentava in tv a In mezz’ora, su Rai Tre, a pretendere “un cambio di passo deciso perché per grazia divina la situazione economica del Paese non cambierà”. Non ce ne sarebbe stato il tempo, perché nel frattempo dietro le quinte del teatro politico Renzi aveva ottenuto il suo obiettivo: la testa di Letta nella direzione Pd del 13 febbraio e la poltrona di Palazzo Chigi.
Con il governo Berlusconi IV la pressione era cominciata addirittura in estate. Il 5 agosto 2011, con lo spread che aveva superato i 300 punti e i mercati in subbuglio, a Palazzo Chigi era arrivata la lettera firmata da Jean Claude Trichet e Mario Draghi, in cui il governatore uscente e quello in pectore della Bce chiedevano all’esecutivo una serie di misure urgenti per stimolare la crescita in cambio del sostegno di Francoforte sui mercati. Il giorno 13 Emma Marcegaglia avanzava precise richieste: riformare le pensioni di anzianità e fare un “piccolo aumento dell’Iva – spiegava la presidente in un’intervista al Sole 24Ore, il quotidiano di famiglia – anche un solo punto, che può valere fino a 6,5 miliardi, si recuperano altre risorse strutturali per ridurre le tasse sul lavoro“. “Sono preoccupata – affondava lo stesso giorno a Capalbio – perché una manovra tutte tasse di questo tipo è certamente depressiva“.
Il 1° settembre, in nota del Consiglio Direttivo la manovra diventava “debole e inadeguata”. Il 14 il “balletto imbarazzante” nella messa a punto della stessa faceva “un grave danno alla credibilità dell’Italia”. Il 20 ancora Marcegaglia attaccava i provvedimenti del governo che ”hanno un effetto deprimente’‘ e ”sono stati svuotati da ogni contenuto nel corso del dibattito parlamentare”. Il giorno prima era arrivato il downgrade di Standard & Poor’s, che avrebbe fatto decollare di nuovo lo spread e schizzare alle stelle i Credit default swap, gli indicatori della probabilità di fallimento di un Paese. Quando il baratro era a un passo, Confindustria aveva anche pronunciato la sentenza: “Fate presto“, titolava a caratteri cubitali il 10 novembre il Sole 24 Ore, chiedendo un “nuovo governo in tempi brevi o elezioni”. Ventiquattro ore prima Mario Monti era stato nominato senatore a vita, 6 giorni dopo finiva l’ultimo governo del Cavaliere.
E’ “crescita” la parola d’ordine. L’ha chiesta il presidente Vincenzo Boccia durante l’incontro con le categorie produttive a sostegno della Tav: “Siamo contro questa manovra perché non ha nulla di crescita”. La sollecitavano, gli imprenditori, anche il 3 aprile 2015 al governo sulla pagina del loro giornale: “Manovra senza crescita, servono infrastrutture”, titolava quel giorno il Sole. Indicazione “catastrofica”, secondo Renato Brunetta che su Twitter vaticinava: “Storia insegna che quando Confindustria attacca governo poi finisce tutto. Si pensi a botte Squinzi-Letta”. A Renzi non accadde, invece. Le frizioni non erano mancate tra l’ex sindaco e i piani altri di viale dell’Astronomia, ma provvedimenti come il Jobs Act e l’abolizione dell’articolo 18 avevano concimato il terreno di una convivenza tutto sommato pacifica, continuata anche nell’era Gentiloni. Un idillio brillantemente riassunto da Renzi il 24 febbraio scorso durante un incontro con gli industriali di Firenze: “Nessun governo ha fatto quello che abbiamo fatto noi per rispondere non dico alle esigenze degli imprenditori, ma quantomeno a quelle di Confindustria”.