“I fornitori di servizi di memorizzazione permanente hanno l’obbligo di richiedere, all’atto di iscrizione del destinatario del servizio, un documento d’identità in corso di validità. L’inosservanza dell’obbligo di cui al comma 1 comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 500 a 10mila euro”: sono questi i due punti cardine della proposta di legge presentata a ottobre da un senatore di Forza Italia, Nazario Pagano. Tradotto: quando ci si iscriverà a piattaforme e social network bisognerà fornire la scansione di un documento che certifichi la propria identità.

L’idea di base non è nuova: abolire l’anonimato sul web per abolire dal web – secondo la semplice equazione di tutti coloro che ripetutamente spingono queste proposte – chi insulta e diffama online. La tesi è che in questo modo si renda chiunque più facilmente rintracciabile (e perseguibile) online e che si inculchi anche una sorta di autocensura: come dire, ci si penserebbe due volte prima di offendere e calunniare. Una narrazione coerente che, però, nella pratica si scontra con diversi limiti.

Il primo è la pericolosità nel fornire ad aziende private, più o meno illuminate che siano, tutti i dati anagrafici dei loro utenti. Anzi, di più: con la scansione della carta d’identità, in verità, si tratterebbe di cedere anche i dati biometrici, ovvero l’immagine del volto. Una mole di informazioni talmente grande che, in caso di hackeraggio o furto di dati finirebbe nelle mani di chiunque. Risale a meno di una settimana fa il grande data breach della catena di hotel Marriott: non parliamo quindi di un’ipotesi priva di fondamento. Certo, si ragiona per probabilità. Ma sarebbe il caso di iniziare a pensare alle conseguenze peggiori per la nostra privacy prima che questa sia violata, non solo quando ce ne accorgiamo e solo perché in mezzo ci sono scandali (e manovre) politici.

Inoltre, al di là delle buone intenzioni, non è sempre ben chiaro quali siano i secondi fini, gli interessi e le attività di chi gestisce i nostri dati. Lo scandalo Cambridge Analytica ha dimostrato che si tratta di informazioni preziosissime per tutti. Ci si può fare di tutto, vendere polizze su misura o essere spiato dai servizi segreti. Ma senza scomodare la Nsa e il controllo di massa, si può dire che già oggi esistono gli strumenti per indagare i reati informatici. E vengono anche utilizzati (avete presente la Polizia postale?). Che bisogno c’è di collezionare i nostri documenti in server fuori dai nostri confini che molto spesso cercano di sfuggire alle nostre leggi (altro elemento che vanificherebbe ogni norma simile)?

E immaginiamo anche che questa legge sia approvata, ipotesi per fortuna molto remota: cosa s’intende fare per tutti coloro che anonimamente scrivono o si registrano dall’estero? Probabilmente nulla, perché non si può estendere la portata della norma oltre confine. Inoltre, chi volesse davvero compiere un reato – perché mi auguro che la libertà di espressione non sia assolutamente messa in discussione – avrebbe diversi modi semplici e tecnologici (che si imparano facilmente con i tutorial online) per aggirare il problema e far risultare il proprio pc collegato dalla Nuova Zelanda invece che da Barcellona Pozzo di Gotto. O potrebbe addirittura utilizzare una qualsiasi scansione di carte d’identità rubate reperibili online o sui forum del dark web.

Immaginate un funzionario di Facebook o Twitter che venga a controllare a casa che l’utente corrisponda al documento inviato o che pretenda un collegamento con una webcam per certificare l’identità (oltretutto Il Fatto Quotidiano ha già dimostrato che anche falsificare l’identità digitale con questo iter è possibile). Fantascienza.

Insomma, una legge del genere – e si spera davvero questa sia l’ultima volta che lo si debba dire – è assurda e danneggerebbe tutti coloro che, invece, dell’anonimato sul web hanno davvero bisogno, per non essere perseguitati, per denunciare, per nascondersi da chi li vuole tracciare a tutti i costi. Una storia vecchia come il web, assurdo che ancora non vi sia chiaro: non è forse il momento di investire tutte queste idee e queste energie per iniziative che rinvigoriscano spirito critico e intelligenza delle persone? Magari insegnare a ignorare gli odiatori e a verificare le notizie può essere più efficace del cercare di ingabbiare i cosiddetti haters, spesso amplificati dagli odiatori degli odiatori. Un’eco infinita che senza pubblico non avrebbe ragione di esistere.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Stampa, Crimi: “Non ho visto mobilitazioni quando anni fa ci sono state epurazioni e censure. Governo non limita libertà”

next
Articolo Successivo

Mattia Feltri ha vinto il premio “È Giornalismo 2018”: “Un riconoscimento alla storia giornalistica familiare”

next