Sabir Tareq, generale. Usham Helmy e Ather Kamal, colonnelli. Magdi Sharif, maggiore. Mhamoud Najem, agente. Sono i cinque ufficiali del dipartimento di Sicurezza nazionale, i servizi segreti civili, e dell’ufficio dell’investigazione giudiziaria del Cairo, la polizia investigativa, iscritti nel registro degli indagati dalla Procura di Roma. Nei loro confronti il procuratore capo Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco contestano il reato di concorso in sequestro di persona. Dall’attività di indagine svolta nei mesi scorsi dal Ros e dallo Sco è emerso come abbiano avuto un ruolo nel sequestro di Giulio Regeni, il ricercatore friulano scomparso il 25 gennaio 2016 e trovato morto il 3 febbraio sulla strada che collega la capitale con Alessandria d’Egitto.
La notizia era trapelata il 29 novembre sui giornali italiani. “Al di là delle indiscrezioni di stampa la procura resta ferma a quanto riportato nel comunicato congiunto del 28 novembre scorso. Nei prossimi giorni verrà formalizzata l’iscrizione nel registro degli indagati di alcuni nomi identificati nell’attività di indagine svolta da Ros e Sco nei mesi scorsi”, precisavano lunedì sera i magistrati. E nonostante Piazzale Clodio assicuri la volontà di collaborare con il Cairo, di fatto, per la prima volta, la strada percorsa dagli inquirenti dei due Paesi si divide. Con questa decisione a Roma si prova a imprimere un’accelerazione dopo mesi di stallo nei quali non si sono fatti ulteriori passi in avanti. La decisione di Pignatone e Colaiocco arriva dopo quasi tre anni di indagini andate tanto a rilento da sembrare, in più occasioni, ferme.
Certo è che il ricercatore friulano sia stato attenzionato da polizia e servizi egiziani già settimane prima del rapimento. Inoltre le indagini sui tabulati telefonici hanno dimostrato il collegamento tra gli agenti che si occuparono di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali della National Security coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi il 24 marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l’omicidio (in casa di uno dei banditi vennero trovati i documenti del ragazzo).
Nelle prime settimane dopo il ritrovamento del corpo, tante false piste si susseguirono: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, successivamente si insinuò che il giovane fosse stato ucciso perché ritenuto una spia, poi che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l’aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte di Giulio alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato morte.
Il 24 marzo del 2016 arrivò l’ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c’erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. A distanza di quasi tre anni dall’omicidio, anche se la verità ufficiale ancora manca, chi indaga in Italia è convinto che Giulio sia morto, dopo atroci torture, per gli studi cui lavorava con determinazione e serietà, che lo hanno messo in contatto con chi ne ha determinato il tragico destino.