di Riccardo Stifani

Il 2018 è l’anno di Mandela.

Il centenario della nascita di Madiba corrisponde infatti al primo lustro dalla sua scomparsa. Dal 2013 il Sudafrica, entrato de facto nell’era post-Mandela, ha dovuto confrontarsi con la pesante eredità dell’uomo che più di tutti aveva contribuito a guarirlo da quel virus chiamato apartheid.

Cinque anni dopo la morte di Mandela il Sudafrica sembra essersi progressivamente allontanato dalla rotta tracciata con fatica nel 1994, rotta che sull’entusiasmo diffuso di fine millennio aveva proiettato il Paese tra le cinque economie con le migliori prospettive di sviluppo (gli ormai dimenticati BRICS).

L’involuzione a cui è stato soggetto il Sudafrica ha comportato un aumento vertiginoso delle disuguaglianze, che gli è valso, nel 2018, il titolo di società più iniqua del mondo (definizione World Bank). La generazione dei “nati-liberi”, ovvero i nati dal 1994 in poi, disincantata, una volta presa coscienza dell’effettiva capacità economica del Paese, è andata a gonfiare le fila dei disoccupati (26%), facendo fatica ad inserirsi in un mondo del lavoro in cui anche la questione razziale continua ad avere peso.

Proprio a cavallo tra redistribuzione e razza si posiziona una delle più recenti iniziative del governo guidato da Cyril Ramphosa – già negoziatore della transizione democratica del ’94 – chiamato a raccogliere e risollevare l’eredità di Mandela, andata offuscandosi nel tempo a causa degli scandali che hanno colpito il suo partito, l’African National Congress, durante i mandati di Jacob Zuma (2009-2018). Ramphosa ha infatti concepito come prioritaria la compensazione degli sfratti, spesso violenti, di autoctoni neri avvenuto sotto dominazione bianca come conseguenza del Natives Land Act del 1913, atto che introduceva forti restrizioni all’acquisto e/o all’affitto di terreni agricoli nel territorio del Sudafrica bianco.

A questo fine, è stato necessario cambiare la Costituzione perché fosse possibile confiscare proprietà su basi razziali senza elargire un rimborso. Un’azione di questo tipo è legittimata, secondo Mbuyiseni Ndlozi, esponente del principale partito di opposizione, l’Economic Freedom Fighters (EFF), dal fatto che quelle terre sono state acquisite dalla minoranza bianca attraverso gravi violazioni dei diritti umani.

L’ANC spera in questo modo di ottenere risultati migliori di quelli a cui ha portato il piano redistributivo lanciato nel 1994, nel quale si prevedeva una restituzione del 30% dei territori ai legittimi proprietari entro il 2014, a cui ha fatto seguito una redistribuzione effettiva di solo il 10% degli stessi (il 23,6% delle terre continua ad essere gestito dalla minoranza bianca a fronte del 1,2% gestito dalla maggioranza nera). I gruppi di Afrikaaner più conservatori si sono mostrati sin da subito contrari a questa decisione del governo sudafricano, accusato di volersi impadronire della terra degli agricoltori bianchi favorendo attacchi e atti di discriminazione nei loro confronti.

Il bisogno di attirare l’attenzione dei media e il supporto internazionale da parte di AfriForum – fazione moderata – e dei Suidlanders (“South Landers”) – gruppo estremista che paventa l’inevitabilità della guerra razziale – si spiega se si pensa alla crisi esistenziale che il nazionalismo Afrikaaner, basato su lingua e agricoltura, si trova a dover affrontare.

Il timore che la politica di espropriazione provoca è inoltre motivato dal vivo ricordo di quanto successo in Zimbabwe, dove Robert Mugabe, più volte critico nei confronti di Mandela, colpevole di aver preferito la propria libertà alla libertà economica delle popolazioni nere, ha trascinato l’economia verso il collasso.

L’allarme al genocidio di bianchi, in particolare di agricoltori bianchi, non sembra tuttavia essere sostenuto dai numeri: gli impiegati del settore agricolo non sono più esposti al rischio di essere uccisi di un qualsiasi sudafricano. La principale minaccia alla stabilità del Sudafrica, se si guarda al concreto, è invece proprio l’aumento costante e generalizzato di episodi violenti, questi sì fomentati dall’aumento delle disparità economiche e dalle iniquità sociali che attraversano il paese.

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