Cinema

La donna elettrica, uno dei film più ribelli, divertenti e politici di questo 2018

Si astengano tutti i perditempo da realpolitik salottiera, tutte le anime candide che fanno le rivoluzioni stando davanti alla tv o dal trespolo di una cattedra del sapere. Perché nel film diretto dall’islandese Benedikt Erligsson protagonista è una donna che agisce concretamente, mani nel fango, sangue, sudore e un filo di paura, per difendere l’ambiente e la natura del suo paese

di Davide Turrini

Non ci sono parole per descrivere La donna elettrica. Uno dei film più ribelli, divertenti, e politici di questo 2018. Intanto si astengano tutti i perditempo da realpolitik salottiera, tutte le anime candide che fanno le rivoluzioni stando davanti alla tv o dal trespolo di una cattedra del sapere. Perché nel film diretto dall’islandese Benedikt Erligsson protagonista è una donna che agisce concretamente, mani nel fango, sangue, sudore e un filo di paura, per difendere l’ambiente e la natura del suo paese, l’Islanda, dall’intrusione di multinazionali, e per provare a cambiare (almeno) la meccanica mentalità distruttrice del mondo circostante.

Risoluta, energica, determinata, Halla (Hallora Geirharðsdóttir) passeggia in bicicletta, tiene i poster di Gandhi e Mandela sul muro, dirige un candido coro di adulti, ma confabula segretamente con un funzionario governativo per poi distruggere, arco, freccia e tritolo i piloni dell’elettricità che alimentano fabbriche inquinanti. Novella Diana, Halla segue scrupolosamente ogni accortezza pratica e logistica per non farsi rintracciare: mai banalmente goffa, intellettualmente lucidissima, follemente incline a un eroismo popolare da antica resistenza al barbaro invasore, come fosse la storia del Davide contro Golia che echeggia in battaglie valligiane italiane o in angoli remoti e immensi del Sud America.

“Ho piantato un seme”, spiega ad un certo punto del film. E ci soffermiamo molto su questa carica ribellistica ed anticonvenzionale, violenta e sabotatrice dello status quo, perché è il nucleo pulsante e politico del film. Halla ama la sua terra, ne respira l’odore, vi si mescola fisicamente, ne entra in simbiosi come un animale (la copertura ovina per sfuggire al monitoraggio dei droni modello DiCaprio in The Revenant è tanto spiritosa quanto funzionale al discorso). L’unico modo per difenderla diventa così un gesto estremo rappresentato visivamente dall’agire mitologico. Ed è qui che scatta il secondo elemento di messa in scena forte e connotativo: l’ironia tagliente e la baldanza che risiede negli atti che compie Halla come l’intrusione spassosa e continua di un commento musicale diegetico in cui la fonte del suono è perennemente in campo (il terzetto tuba/percussioni/fisarmonica Davíð Þór Jónsson/Magnús Trygvason Eliasen/Ómar Guðjónsson, come il coro delle tre donne ucraine). Una componente surreale alla Roy Andersson mescolata ai fondamentali della tragedia greca per un film che non vuole mai registrare una scontata presa d’atto cronachistica sul tema del cambiamento climatico e del riscaldamento globale, ma fornirne un’elaborazione quasi fiabesca, da film d’avventura, del dato reale e di un antagonismo antisistema.

C’è una connessione forte tra i miei due film, Storie di cavalli e di uomini e La donna elettrica. Si tratta di qualcosa di cui sono diventato davvero consapevole solo dopo aver ultimato quest’ultimo, ossia l’idea fondamentale che i “diritti della Natura” dovrebbero essere di fatto considerati allo stesso livello dei “diritti umani”, ha spiegato il regista. “I diritti della Natura dovrebbero essere protetti con forza in ogni costituzione e difesi da leggi internazionali. Tutti noi dobbiamo capire che la natura incontaminata ha un diritto intrinseco a esistere, una necessità che va al di là dei bisogni dell’uomo e del nostro sistema economico. A volte succede invece che lo stesso Stato, che nei paesi democratici si dà per scontato che sia uno strumento creato dal popolo per il popolo, possa essere facilmente manipolato da interessi particolari contro il bene comune. Quando guardiamo alle grandi sfide che dobbiamo affrontare sulle questioni ambientali, questo ci appare perfettamente chiaro”. Halla è un nome comune in Islanda, ma è anche un riferimento preciso nella storia del paese a due fuorilegge (Halle ed Eyvindur), ribelli, ladri di pecore, che nel diciassettesimo secolo sfuggirono alla cattura per vent’anni.

La donna elettrica soffia così un po’ di spirito ribellistico, d’idealità utopica, di adrenalina della rivolta, come tanto cinema liberal anni settanta, in questa epoca di paure minimali tra spread e punti decimali del deficit. Giusto è così lasciare scritto ai posteri uno stralcio della rivendicazione di Halla dopo aver tirato giù cinque piloni dell’elettricità: “Chiedo a tutti di insorgere e utilizzare il loro ingegno per danneggiare queste imprese. L’unica cosa che questi psicopatici delle aziende multinazionali riescono a comprendere. È così che agiscono, minacciando e sabotando la natura e la società. Il sabotaggio contro la natura ha causato il riscaldamento globale. È un crimine contro l’umanità e contro la vita tutta. Siamo l’ultima generazione che può far cessare le guerre contro il nostro pianeta. I nostri figli e nipoti non potranno farlo. Dobbiamo muoverci ora. È la nostra missione”. Al cinema dal 13 dicembre grazie a Teodora dopo aver entusiasmato il Festival di Cannes.  

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