Musica

‘O Diavolo, il nuovo album di Francesco Di Bella è il canto di una Napoli nascosta

Cala il sole sui vicoli di Napoli. Il tempo è scandito dal rumore del pallone che rimbalza sulle saracinesche dei negozi calciato forte dai bambini che emulano un gol di Lorenzo Insigne, sognando di diventare i nuovi Maradona. Ogni calcio al pallone è una nota, come quella di un percussionista, alla Tullio De Piscopo, che suona la melodia dell’umanità. Quella varia e vivace che popola la Napoli di Francesco Di Bella, ex frontman dei 24 Grana, tra le band più originali del panorama underground italiano degli anni Novanta.

Desideroso di battere nuovi sentieri artistici, Francesco ha intrapreso una carriera da solista per far uscire la sua vena cantautorale e proiettarsi in una dimensione di più ampio respiro, seppur mantenendo il dialetto napoletano come lingua per esprimersi. Da qualche giorno è uscito il suo terzo disco intitolato ’O Diavolo, “figura carica di suggestioni, che da sempre ritroviamo nei vecchi pezzi blues e nei brani rock o nelle vecchie ballate folk”, che Di Bella qui utilizza come pretesto per raccontare il narcisismo e l’edonismo che caratterizzano la nostra società ipertecnologica in un’epoca disordinata, dove bene e male non sono mai stati così confusi (cfr. i social network) e mai era stato così labile il confine tra il reale e la finzione. 

O Diavolo

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Composto da nove brani (consigliati Canzone ’e carcerate  tratta da una poesia di Ferdinando Russo, “poeta a tempo perso, ma di mestiere propriamente cospiratore”, Stella NeraIl giardino nascosto) è un album che a livello sonoro, con i suoi ritmi in levare, viaggia tra la Giamaica e il Mediterraneo, ma anche tra il folk e la tradizione partenopea, ed è stato prodotto all’ombra del Vesuvio per la storica etichetta Canzonetta Record, che annovera nel proprio catalogo alcune delle canzoni napoletane più importanti, da MalafemmenaI’ te vurria vasà e Munasterio ‘e Santa Chiara. Di Bella attualmente è impegnato nel tour di presentazione del disco (7.12 è a Roma al Largo Venue; il 12.12 a Napoli al Teatro Sannazzaro; il 20.12 a Milano al Serraglio).

In un suo celebre aforisma, Goethe afferma: “Ci sono uomini che amano e ricercano ciò che è a loro uguale e altri invece che amano e vanno dietro a ciò che è a loro contrario”. Considerando la tua esperienza nei 24 Grana e il nuovo ruolo da solista che ti sei ritagliato, si può dire che tu appartenga sicuramente alla prima categoria…
Sì, anche perché la musica per come la intendo io diventa artigianato, ché poco a poco affini i tuoi strumenti e conoscenze, migliorando quel solco che hai iniziato a tracciare. Ho sempre sentito il bisogno di aprire i miei orizzonti, di confrontarmi con situazioni diverse, e a una certa età, con uno stile di vita completamente diverso, era necessario aggiornare anche tutto quello che mi circondava, compresa la mia esperienza musicale. Resta il fatto che le basi di questo cambiamento e il coraggio per affrontarlo sono profondamente radicati nell’esperienza maturata con la mia vecchia band.

Mi racconti qual è la tua Napoli?
Napoli molto spesso è autoreferenziale e oggi forse più di ieri si specchia in un passatismo che andrebbe rivisto alla luce del fatto che le condizioni della città non sono migliorate granché. A me piace guardarla con le spalle al mare, per poter scrutare quello che succede in periferia e che a livello mainstream non viene raccontato. Amo cercare la bellezza che si annida nelle situazioni più difficili, perché regala una bellezza ancora più grande.

Le tue canzoni raccontano storie degli ultimi, (“nun ce pensà ‘a carriera pe’ mo’ nun è cosa nun te scurdà ca sta scola nun te piace cchiù”), della condizione carceraria  (“tenimmo ‘o core chino e ‘stu veleno nun simmo gente, simmo carcerate”).
Mi discosto da quel modo di fare canzone, che cerca di alleggerire la quotidianità, a me è sempre piaciuto raccontare le cose che sono più nell’ombra e portarle alla luce. La mia Napoli ha bisogno di contaminazioni, di guardare a quel che succede oltreoceano, o in Europa. E di non essere ingabbiata nel cliché solito della napoletanità.

Qualcosa, però, è cambiato con la rivoluzione arancione del sindaco De Magistris, o no?
Il problema di Napoli è che troppo spesso si specchia e si bea dei suoi problemi. L’operazione di De Magistris forse è stata proprio quella di dire ‘siamo così ed è bello essere così’. Ma in questo modo si rischia di far cristallizzare quei problemi che da sempre Napoli subisce. E pensare che oggi siamo linkati col tutto il mondo, avendo la possibilità di imitare quel che di buono fanno gli altri Paesi. Direi che a Napoli, si potrebbe fare di più.

Utilizzi la figura del diavolo – che compare nella copertina realizzata dallo street artist David “Diavù” Vecchiato – per rappresentare questa società malata di vanità ed edonismo.
Il diavolo è una figura che mi permesso di creare un ponte fra antico e contemporaneo. Ho la sensazione che il diavolo rappresenti un mood, una figura centrale nella nostra società iper narcisista, molto edonista. Faccio parte di una generazione che tutto questo lo teneva sedato, e da giovani non avevamo molta voglia di sbandierare le nostre vanità. Oggi tutto quello che si pensa di fare di buono, viene prima postato sui social e poi forse si cerca di attuarlo. Mancano personalità, cultura, educazione. Liquidare in sole 120 battute il proprio pensiero, ed emettere con frasi striminzite gravi sentenze è preoccupante oltreché pericoloso. Il nuovo fascismo, come ha affermato Thom Yorke, è la gente che non si sente più responsabile per il proprio comportamento.