Roberto Pagani è dottorando in linguistica e codicologia islandese all’università pubblica a Reykjavík. "Qui la gente è creativa e rilassata. Sento spesso dire che i giovani italiani non vogliono lavorare. Se venissero pagati e tutelati come fanno qui, con la relativa facilità di assunzione e licenziamento, nessuno starebbe con le mani in mano”
Roberto Pagani ha lasciato l’Italia il 23 agosto 2014, aveva in mano una laurea in lingue nordiche e in inglese, con un anno di Erasmus a Edimburgo. “Sono andato via quando ho capito che la burocrazia mi avrebbe sempre tarpato le ali – racconta –. Non conosco molti altri Paesi in cui avrei potuto insegnare all’università già a 25 anni”. Oggi a 28 anni Roberto è dottorando in linguistica e codicologia islandese all’università di Islanda a Reykjavík, dove insegna anche lingua e letteratura italiana e fa il supplente del docente titolare nei corsi di antico nordico. Tornare? “Preferisco essere messo alla prova che stare in un sistema a vantaggio dei mediocri”.
Precisiamolo. Roberto non si è mai sentito costretto ad andare via. “Mi sono trasferito all’estero per vedere cosa sarebbe successo. Devo dire che la mia si è rivelata una scelta azzeccata”. Da ricercatore è finito a studiare i manoscritti delle saghe medievali, “i loro tesori nazionali, come per noi certe opere d’arte”, spiega. La differenza principale è che gli islandesi provano molto orgoglio per il loro passato letterario: “In Italia non avevo mai visto nessuno di più importante del presidente della provincia di Cremona, qui mi sono trovato a ricevimenti a cui partecipavano la prima ministra o il presidente”.
A parte l’agilità della burocrazia (“10 minuti per aprire un conto in banca, 15 per comprare una macchina”), l’Islanda si distingue dall’Italia per l’atteggiamento molto rilassato nei riguardi della vita. La giornata di Roberto varia in base alla stagione: “Di solito arrivo all’università intorno alle 9, ma in inverno quando il buio continua fino alle 11 del mattino è più difficile alzarsi presto”, sorride. Roberto lavora nell’istituto Árni Magnússon per gli studi islandesi, all’interno del campus universitario. “Sulla mia scrivania ho sempre una catasta di libri aperti tappezzati di note e post-it. Lavoro sui miei manoscritti e inserisco dati su excel a scopo statistico”. Alle 9:50 c’è una sessione di yoga, alle 10 pausa con caffè e tè, per poi proseguire con ricerche e ore di lezione. “A volte resto in istituto a lavorare fino a tardi, ma è comunque a mia discrezione”.
Vivere gli inverni a ridosso del circolo polare artico non è di per sé semplicissimo: “Il buio e il vento costante possono essere davvero pesanti psicologicamente”, spiega Roberto. Eppure gli islandesi sono “molto meno organizzati degli italiani. Non arrivano mai in orario, non pianificano mai se possono evitarlo e improvvisano impazzendo all’ultimo”. La gente in Islanda però è anche molto creativa, “maestra nell’arrangiarsi”, e tutti fanno più di un lavoro. “Io stesso – continua il ricercatore – negli anni ho fatto l’insegnante, il maestro di asilo nido, il traduttore e la guida turistica”. Questa capacità di adattamento rende gli islandesi molto abili nel superare periodi di crisi. Roberto insiste sul punto: “Qui sono molto informali: se dovessi incontrare il presidente in persona mi rivolgerei a lui usandone il nome di battesimo e dandogli del tu. In Italia bisogna sempre divincolarsi nella selva di convenzioni che contemplano forme di cortesia, titoli e quant’altro”.
E in Islanda ci sono dei vantaggi anche dal punto di vista economico. “Sento spesso dire dagli italiani che i giovani non hanno voglia di lavorare. In Islanda dai 16 anni in su lavorano tutti: alle casse dei supermercati ci sono soprattutto ragazzini, così come nei bar e nei ristoranti. Se i giovani italiani venissero pagati come li pagano qui, con le ferie e le tutele che ci sono qui, e con la facilità di assunzione (e licenziamento) che abbiamo qui, nessun ragazzo italiano starebbe con le mani in mano”. Per Roberto il mercato del lavoro italiano è “sbilanciato, gli stipendi sono bassi, c’è troppa differenza salariale tra lavoratori e dirigenti”. Questo crea “invidia sociale e mina la coesione”.
In Islanda, nonostante non manchino gli scandali di lavoratori stranieri sfruttati e sottopagati, “non si teme di perdere il portafogli, dimenticare la porta di casa o dell’auto aperta, perché il tasso di criminalità è molto basso. In più qualsiasi lavoro, nella maggior parte dei casi – spiega Roberto – permette di farsi i weekend a Tenerife o a Londra e comprarsi un iPhone”. L’ipotesi del ritorno in Italia al momento c’è, ma solo per le vacanze. “Mi sono trasferito in Islanda perché mi sono innamorato del Paese, ma tanti vogliono muoversi solo perché in Italia non vedono nessun futuro. Se devono trovarsi un lavoro umile di ripiego, tanto vale farlo in un Paese come questo, che permette di farsi una vita dignitosa”.