“Con Napolitano, con Ciampi. Quelli sì che erano tempi”. Il presidente Mattarella ha appena attraversato il foyer come se fosse stato appoggiato su un tapis roulant da gate di un volo internazionale e la giornalista ciondola: “Lui no, non è sentito vicino dalla gente”. Magari fosse, le avrebbe forse risposto il presidente, mentre la Scala non gli permetteva di sedersi con quell’applauso sterminato. Ecco: grazie, sì, troppo buoni, uniti e ce la faremo ok, alla grande, ma ora anche basta, vi giuro non me la prendo, la possiamo finire qui, vi ho già fatto un piccolo cenno con la mano, ora ve ne faccio un altro per dire che ci possiamo sedere, perché vedete lì Chailly, povero disgraziato, che c’ha gente, la verità è che ve ne approfittate perché sono gentile e allora ecco, mi giro verso la sedia, sedia che come vedete bene tutti è vuota perché – indovina indovinello – dovrei riempirla io. Nessuno tra soprano, basso e tenore alla fine potrà nemmeno sognare la notte un applauso lungo due minuti e 31 secondi: viene riservato a chi dicevano che non ce l’aveva nemmeno, la voce. Nello stesso giorno, Mattarella accolto come Freddy Mercury e chi lo ha voluto al Quirinale – unica riforma visibile agli occhi – che si atteggia a Dexter indeciso su come allungare l’agonia del suo partito, abbandonarlo o (splatter) guidarlo di nuovo.
L’esordio di Mattarella nel Palco Reale è una liberazione per la Scala: la prima volta era stata l’apertura del Giubileo, un’altra volta era stato il cacciucco post-referendum, l’ultima volta una visita in Portogallo. E il suo approdo in teatro, invece, è una liberazione per il foyer. Il presidente, il presidente: non si parla d’altro nel salone che ha la tipica dinamica della pista dell’autoscontro con la differenza che nell’autoscontro c’è molta più disciplina. “Ma che c’è, che sono tutti qui ammassati?” chiede una sciura a un’altra, “Sta arrivando un presidente ma non so di che cosa… – è la risposta con un velo di scetticismo e un filo di perle – Magari è solo quello di Confindustria”. “Ah aspetta chi è… la Cosa”. La Cosa, che poi sarebbe Emma Marcegaglia, in realtà ha già fatto il suo ingresso abbronzatissimo e imperiale e comunque è ancora presidente ma di un’altra cosa, perché da un certo momento in poi presidente lo si resta un po’ per sempre. Le due sciure proseguono la caccia al presidente, vedono uno braccato dai cronisti tipo caccia alla volpe, la tromba e tutto il resto, “Chi è quel signore qua?”, ma non è un presidente, è solo un amministratore delegato, Carlo Messina, di Intesa San Paolo. Niente, non vale. Sfilano diecimila presidenti: Alberti Casellati, Confalonieri, Squinzi, Sangalli della Confcommercio, Massimo Tononi della Cdp, Livia Pomodoro dell’Accademia Brera. Marta Cartabia è vice (della Consulta), Oldani è chef, Carla Fracci è molto più che presidente, Irene Pivetti è ex. Eppure esiste un metodo per capire quando armarsi di telefonino per fare una foto che puntualmente sembra il fermo immagine di una nebulosa o un video formato barca a vela ancorata a Capo Verde. Il metodo è seguire i due chignon, che svettano dalla massa informe delle teste (alcune coronate, altre di diversa natura) nel foyer e che non sono la parte del tutto di due cavallone di come a volte girano in queste occasionissime, bensì i corazzieri del Quirinale.
Ma in realtà il più scortato pare il ministro dell’Economia Giovanni Tria: qualcuno maligna che è per tutelarsi quando va in consiglio dei ministri (e infatti ieri non c’è andato). In ogni caso si è affacciata una signora che parlava in tedesco – schatz, auf e altre cose da Sudeti e Anschluss – e Tria ha accelerato il passo, vedi mai.
Il popolo osanna il suo presidente, dunque, e chissà se è popolo. E se è popolo, chissà se è populismo e che populismo è, quello che fa surfare sulla folla Mattarella, l’unico disarmato di campagna elettorale, quale opzione sarà la più adeguata: una minuscola elite di parrucconi, un’insospettabile parte della maggioranza o il seme di un futuro che però sembra prossimo più o meno come lo sbarco armi e bagagli su Marte? Come in un giallo con Poirot, gli indizi sono tutti lì in mostra: al massimo è il popolo quello di Milano, l’isola senza mare intorno. Non più solo dentro e fuori dalla Scala. Ma dentro e fuori da Milano: il resto dell’Italia, che la guarda dalla televisione come da un buco della serratura, c’entra pochino e chissà se ne capisce qualcosa.
Non esiste una Prima del Cambiamento, insomma, perché non ce n’è bisogno. Al Cambiamento non frega nulla della Prima e la Prima non ha bisogno del Cambiamento. Il leghismo se ne sbatte, per dirla precisa. Solo il governatore Fontana fa capolino laggiù in penombra. Per il resto, la cultura sarà anche “baluardo della democrazia“, quella roba che ha detto Mattarella, ma vuoi mettere farsi contaminare da quell’atmosfera stimolante che è Pomeriggio Live, dove il Capitano – mentre sta per andare in scena l’Attila – può godersi gli 8 chilotoni della Luce D’Urso. Il grillismo invece non attecchisce e non se ne danna. Arturo Artom, l’imprenditore amico di Casaleggio, è una colonna della Prima da quando i Cinquestelle erano ancora nel mondo dei sogni e tra l’altro entra nello stesso momento di Mattarella: annullato. (Però non rinuncia a una foto davanti all’Albero col direttore di Libero Pietro Senaldi). L’altro grillino, Alberto Bonisoli, il ministro della Cultura, sconfitto nel collegio per la Camera a Milano Centro da Bruno Tabacci, spiega che questa città è la prima della classe e andrebbe copiata, altroché.
Non una Prima del Cambiamento, piuttosto il cambiamento della Prima. Lo scicchismo di Milano vaccina perfino una faccenda attesa anche per le sue carnascialate: i suoi frappè di altissimo con bassissimo, le sue centrifughe di Lincei e starlette, etoile e rifatte, Valerie Marini e alberi di Natale. Sembra che l’impronta di Mario Monti, immancabile, non venga più via. Tanta, tanta sobrietà. Per il momento sono rimasti solo Sabina Negri e l’autoscontro. Fiancate, gomiti appuntiti, panciate, colpi di culo (in senso letterale). I camerieri del ridotto Toscanini che distribuiscono fette di panettone sembrano omini del Subbuteo. C’è chi ha più esperienza e quindi agisce più di mestiere, il segreto lo stesso dei difensori centrali anche di classifica medio-bassa di serie B. Melania Rizzoli se la cava abbastanza mentre si fa largo con la tecnica detta di Martin Castrogiovanni. Massimo Bernardini, leggendario come sempre, gioisce perché “anche se non frega a nessuno” si apre un varco nella giungla di cameramen/fotografi/videomaker/gran chiacchieroni/pettegoli/pe-pe-pe-pe. Una thai si presenta con delle cuffie dorate, Giovanni Ciacci – col pizzo blu, boh – riconosce lo stile di Dolce e Gabbana: “Se devono fa’ perdona’, eh”. “Però, dai, gente ce n’è” dà di gomito un signore come se alla fine gli scontrini li facesse lui. Sì, ma prima, prima prima, era un’altra cosa. Due fotografi si rivedono nel foyer dopo anni, per esempio: “Che tempi Tangentopoli. Lì sì che ci divertivamo”.