“Finisco il turno alle quattro di pomeriggio ma esco all’ora di cena, perché non ho un sostituto e non posso abbandonare i pazienti”. Elisa lavora nella terapia intensiva di un grande ospedale pubblico di Verona. “Faccio le notti da sola, salto i giorni di riposo e lavoro fino a 60 ore la settimana. A ottobre avevo già accumulato 400 ore di straordinario ma l’ospedale non me le paga. Non ce la faccio più, me ne voglio andare”. Il suo collega Andrea fa l’anestesista in sala operatoria: “Seguo contemporaneamente due o tre interventi perché siamo in pochi”. In Piemonte stessa storia.

Queste testimonianze sono lo specchio del malessere che stanno vivendo i medici italiani. Almeno diecimila in meno rispetto al fabbisogno – a causa dell’impennata di pensionamenti e del numero insufficiente di borse di formazione – con un contratto nazionale di lavoro al palo da dieci anni. Ragion per cui il 23 novembre hanno scioperato e oggi minacciano di scendere in piazza di nuovo. Le ragioni sono le stesse, da Bolzano a Cagliari. “Faccio il chirurgo ma devo coprire le guardie anche in pronto soccorso perché non ci sono abbastanza medici”, racconta Luca da un ospedale della provincia di Cuneo. La normativa europea impone 11 ore di riposo al giorno e un limite di 48 ore settimanali. “Io ne timbro 50 o 70. L’azienda mi compra attività aggiuntiva in libera professione per tappare i buchi. Ci mancano quattro unità in equipe”. “Anche io sono un chirurgo – dice un altro medico piemontese – e dopo una carriera nel pubblico mi sono licenziato e ho aperto la partita iva. Ho 56 anni e non reggevo più quei ritmi infernali. Oggi lavoro come libero professionista in due ospedali privati accreditati in Lombardia, guadagno di meno ma sono più gratificato”. A Milano e a Roma le voci si ripetono. “Ho 60 anni e lavoro il triplo di quando ne avevo 30 – si sfoga una dottoressa della Medicina interna di un grande ospedale della Capitale -. Quello che prima facevamo in 5 oggi lo facciamo in 2. Sono sempre di corsa, con l’ansia addosso, non riesco a parlare con i parenti dei ricoverati, e se c’è un’urgenza devo mollare il paziente che sto visitando”. Situazioni, come si è visto, generalizzate e diffuse lungo tutto lo Stivale.

Dal 2008 ogni medico ha perso dai 20 ai 30mila euro – denuncia il segretario nazionale Anaao (il sindacato dei medici e dirigenti del Ssn) Carlo Palermo -. Gli scatti di carriera sono bloccati e gli straordinari non sono retribuiti. Il contratto non recepisce ancora la direttiva europea sull’orario di lavoro, esponendo il medico ad abusi. Per questo, sono sempre  più quelli che passano nel privato, in libera professione. Dobbiamo fermare questa fuga – invoca Palermo – e rendere più attrattivo il posto pubblico”. Il sindacato chiede inoltre “più risorse per il Fondo sanitario per fermare la privatizzazione della sanità”, sottolinea il segretario, e “la cancellazione del blocco della spesa per il personale fissato al dato 2004 ridotto dell’1,4 per cento, per facilitare il turnover, le nuovi assunzioni e la stabilizzazione dei 7mila medici a tempo determinato e di altri 7mila con contratti atipici”.

L’incubo delle scoperture da mancato ricambio
Considerato poi che entro il 2023 usciranno dal sistema più di 45mila medici, secondo il calcolo di Anaao, “vanno necessariamente finanziate almeno 3mila borse di specialità in più”. I medici infatti non mancano. Se ne laureano circa 9mila l’anno ma i contratti per la formazione specialista da sempre sono di un numero inferiore. Nel 2018 non sono arrivati a settemila. Con il risultato che, ogni anno, circa 10mila neolaureati stazionano in un limbo: “In attesa di rifare il test aprono la partita iva e coprono turni di guardia medica, oppure nelle strutture di lungodegenza, nelle cliniche private o negli eventi sportivi” ci spiega Pierino Di Silverio, responsabile Anaao giovani.

Chi paga è il cittadino-contribuente. E paga in salute
Le conseguenze del mancato investimento nella sanità pubblica si riversano sui pazienti. Con attese per i ricoveri, determinate dal taglio di oltre 75mila posti letto negli ultimi dieci anni. E attese per le visite ambulatoriali. Per smaltire le code e garantire l’accesso alle prestazioni in regime pubblico, il presidente della Regione Toscana Enrico Rossi sta discutendo una riforma insieme con le associazioni di categoria, che prevede di acquistare almeno il 50 per cento dell’attività di intramoenia (le prestazioni erogate a pagamento al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, ndr), cioè 5 ore delle 10 settimanali che il medico dipendente del Ssn può dedicare alla libera professione. “Bisogna rilanciare dal punto di vista etico il nostro servizio sanitario, va rafforzata l’attività pubblica rimpinguando il Fondo e limitata quella privata – insiste Rossi -. Allo stesso tempo va reso più appetibile il lavoro in ospedale, rinnovando al più presto il contratto nazionale, riconoscendo l’indennità di esclusività anche nei primi cinque anni dopo la specialità. Tanti giovani medici oggi lavorano metà giornata nel pubblico e metà negli istituti privati per arrotondare”.

Il mercato delle prestazioni aggiuntive
La Toscana negli ultimi mesi ha già investito oltre dieci milioni di euro per comprare prestazioni aggiuntive ambulatoriali e di chirurgia, da svolgere anche la sera e il sabato, quando la lista di attesa è troppo lunga, perché non siano i cittadini a pagarsele. “Il Servizio sanitario nazionale è la più grande struttura civile e di solidarietà del Paese, è sempre stato efficiente e va difeso fino in fondo – continua Rossi -. Ci illudono che il pubblico non ce la fa, che servono i fondi integrativi, le assicurazioni e il privato: non è vero, questo è un attacco ferale alla nostra sanità! Il Ssn può e deve farcela. Altrimenti avremo pazienti poveri che faranno sempre più fatica a farsi curare e pazienti ricchi che potranno accedere a tutte le cure”. Intanto l’assessore regionale alla Sanità, Stefania Saccardi, ha inviato una lettera a tutti i direttori generali delle aziende sanitarie e ospedaliere per una urgente ricognizione dei volumi dell’attività di intramoenia e degli incassi derivati.

Il caso Puglia: la legge avversata dai medici
In Puglia, il consigliere regionale del Pd Fabiano Amati ha proposto una legge per sospendere la libera professione quando a parità di prestazioni richieste per le classi B (brevi, da erogare entro 10 giorni) e D (differibili, entro 30 giorni per le visite e 60 per le analisi), e a parità di personale impiegato e di ore lavorate, i tempi di attesa della prestazione istituzionale risultano  superiori di più di cinque giorni a quelli in regime di intramoenia. La discussione della proposta di legge è stata rinviata a dopo dopo l’Epifania ma ha già suscitato l’ira dei sindacati dei medici.

Lazio, dove un medico su quattro lascia
Abbiamo sentito il direttore generale di una grande azienda ospedaliera, il San Camillo di Roma, quartier generale della manifestazione del 23 novembre, per capire se la stretta sull’attività privata intramuraria potrebbe funzionare. “Va bene nel breve termine ma per risolvere davvero il problema va assunto più personale – spiega Fabrizio D’Alba -. Il Lazio sta uscendo da una lunga stagione di blocco del turnover durante la quale abbiamo perso il 25 per cento dei medici. Oggi finalmente stiamo tornando a fare i concorsi”. Per D’Alba, e non solo lui, c’è anche un problema di cattive abitudini dei cittadini. “Molte volte il cittadino pretende di fare immediatamente un’ecografia o una tac non urgente, ma differibile, come indicato sulla ricetta del medico. Poi il 20 per cento di chi prenota non si presenta alla visita, e intasa la lista. L’estate scorsa – continua – abbiamo fatto un piano per abbattere i tempi di attesa per certe prestazioni e abbiamo richiamato tutte le persone che avevano prenotato proponendo delle date anticipate ma solo il 20 per cento ha accettato. Anche l’adesione agli screening gratuiti per la prevenzione del cancro all’utero, al seno e al colon retto – conclude D’Alba – resta ancora bassa”.

Nel privato? Non si sta sempre meglio
“I contratti hanno minori tutele, i giorni di ferie sono di meno e le retribuzioni più basse di quelli pubblici. La sanità privata del resto non vive per la parità di bilancio ma per fare utili” ricorda Danilo Mazzacane, segretario generale della Cisl Medici della Lombardia, dove la sanità privata accreditata rappresenta circa il 40 per cento dei ricoveri e la metà dell’attività ambulatoriale. “Se non facessi visite a pagamento in intramoenia, con dei figli da mantenere, non arriverei alla fine del mese” confessa un chirurgo dipendente di una clinica privata convenzionata con il Ssn nel Nord d’Italia. Lucia, 40 anni, oculista in un ospedale privato di Bergamo: “Sono libera professionista da sempre, non mi hanno mai offerto un contratto. Per una visita generale in regime pubblico prendo il 50 per cento del ticket, cioè 11,25 euro. Devo integrare necessariamente con l’attività a pagamento, sia dentro che fuori l’ospedale”.

“Equipe ridotte all’osso”
Il presidente regionale Aiop (l’associazione italiana dell’ospedalità privata), Dario Beretta, che dirige l’istituto San Siro a Milano, è preoccupato: “Pur rispettando i requisiti minimi di personale richiesti dalla Regione per l’accreditamento oggi le equipe sono ridotte allo stretto necessario in molti reparti. E il ricorso ai liberi professionisti, già presenti al 50 per cento, sta crescendo perché la partita iva non ha vincoli di orario e non obbliga a turni più pesanti”. Gli fa eco Francesco Galli, amministratore delegato di cinque ospedali del gruppo San Donato: “Negli ultimi due anni la situazione è peggiorata: l’attività ambulatoriale viene ridotta a singhiozzo, i primari si sono messi a fare reperibilità e guardie notturne, e i giovani preferiscono andare all’estero. Per incentivare il personale a fare più ore abbiamo aumentato i premi di presenza a fine anno”. La soluzione momentanea suggerita da Aiop è la stessa di Anaao: assumere gli specializzandi negli ultimi due anni di formazione. Una proposta già al vaglio del ministero della Salute.

Gli affari dei “somministratori”
Cosa succede se ai concorsi non si presenta più nessuno? Quello che prima non si poteva neanche immaginare: si affittano i medici, anche in pensione. Soprattutto al Nord, dove le carenze sono più gravi. Una delle principali società di reclutamento è la Medical line consulting, con sede a Roma, attiva in Piemonte, Veneto, Emilia Romagna e Lazio con 250 medici, pagati fino a 90 euro lordi l’ora. “È un sogno – commenta uno di loro, 30 anni, senza specializzazione, gettonista al pronto soccorso di Cuorgnè (Torino) -, decido io quando e quanto lavorare. Con 10 turni al mese da 12 ore l’uno, senza notti e festivi, guadagno già il doppio di un dipendente. Ho la partita iva e un contratto con la società per la durata della convenzione con l’asl”. Vive a Torino, a un’ora di strada dal posto di lavoro. “Ho tutto spesato, trasporto e hotel quando attacco al mattino presto ”.

La carica dei medici a chiamata
Nelle asl provinciali del Piemonte i medici a chiamata stanno diventando la regola. Dieci reparti di pediatria su 25 si affidano a loro. Ad Alba, nel cuneese, i pediatri gettonisti coprono 25 notti al mese. Passati totalmente nelle mani di una cooperativa: il punto nascite di Borgosesia (Vercelli) e i pronto soccorso di Cuorgnè e Lanzo (Torino). Quello di Chivasso solo parzialmente. Il direttore generale dell’Asl Torino 4, Lorenzo Ardissone, si sente con le spalle al muro: “Non possiamo interrompere un servizio pubblico. Se con le procedure ordinarie non troviamo candidati, dobbiamo per forza affidarci a loro”.

Il sindacato: “Sicurezza delle cure degrada”
Chi non è d’accordo è il sindacato. “Un medico non può fare il tappabuchi, deve essere selezionato tramite concorso e crescere in un contesto di lavoro altrimenti il livello di sicurezza delle cure degrada” si oppone il segretario nazionale Anaao. “Nessuno ha risposto all’avviso di mobilità interna e ai bandi di gara e per non chiudere i reparti ci siamo rivolti a una cooperativa di Bologna, la Novamedica –  spiega Fabio Perina, direttore amministrativo dell’ospedale di Chioggia (Venezia) -. I medici a gettone coprono turni in pediatria, pronto soccorso, ginecologia e chirurgia”. Sempre nel Veneto opera la società Efds srl, che offre una cinquantina di camici bianchi per diverse brache specialistiche (emergenza-urgenza, ginecologia, pediatria e medicina interna). “Al momento abbiamo in appalto tra 150 e 200 turni al mese presso l’Ulss 8 Berica, altri 90 all’Ulss 9 Scaligera e 20 all’Ulss 3 Serenissima – ci riferiscono dagli uffici -. Fino al 2007 eravamo una onlus, con l’aumento delle richieste nel 2009 siamo diventati una srl”. Infine, a un’altra cooperativa, la Croce Verde di Mestre, sono stati affidati i pronto soccorso di Sacile e Maniago, entrambi in provincia di Pordenone, in Friuli Venezia Giulia.

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