di Rossella De Falco e Roberto De Vogli
La prima autrice di questo intervento è la dottoressa Rossella De Falco, dottoranda di ricerca presso il Human Rights Centre dell’Università di Padova. La dottoressa De Falco ha una Laurea in Affari Internazionali alla John Hopkins University e ha perfezionato i suoi studi presso l’Università dell’Essex. Recentemente, ha collaborato con il Centre for Economic and Social Rights (Cesr) di New York al fine di valutare l’impatto delle politiche di austerità sui diritti socio-economici e i determinanti della salute.
Il Servizio sanitario nazionale (Ssn) è stato fondato nel 1978 per garantire a tutti i cittadini italiani l’accesso universale alle cure mediche. Negli anni successivi, tuttavia, le politiche di privatizzazione della sanità hanno messo a repentaglio i valori di universalità dell’Ssn. La crisi economica che ha colpito l’Eurozona dal 2010 in poi, e il conseguente incremento del debito pubblico, hanno creato ulteriore “stress” al Ssn. Il progressivo spostamento dei costi sanitari sui cittadini, iniziato con l’introduzione dei ticket sanitari (decreto legge 382/1989), fino alla comparsa dei super-ticket nel 2011, va nella direzione dello smantellamento della sanità pubblica in Italia.
È difficile immaginare un’Italia privata del diritto alla salute? Allora, bisogna oltrepassare il Mar Ionio e approdare nella Grecia della Troika, dove la spesa sanitaria governativa è stata ridotta al 4,7% del Pil nel 2017, quasi un terzo in meno rispetto al 9,9% pre-crisi. I cittadini greci sono diventati, loro malgrado, gli attori di una “tragedia” dove la vittima è la sanità pubblica. Non ci riferiamo solo a 35mila operatori sanitari in meno, nonché carenze di lenzuola, guanti, posti letto e medicine. Gli effetti epidemiologici delle politiche fiscali regressive sono stati devastanti: la mortalità infantile è aumentata del 40% tra il 2008 e il 2010, un’epidemia di malaria è esplosa nel 2012-13 e il 10% dei pazienti greci è a rischio di contrarre infezioni fatali all’interno degli ospedali.
Se in Italia siamo ben lontani dall’emergenza sanitaria greca, l’austerità sta rendendo sempre più difficile garantire l’accessibilità economica delle cure sanitarie. A essere colpiti sono, in prevalenza, gli anziani, le famiglie a basso reddito con figli a carico, i giovani precari e chi ha perso il lavoro, spesso a causa della crisi economica. Sono storie come quella di Marino, padre di due figli, che gestiva uno studio fotografico insieme alla moglie. Poi, la crisi e il fallimento della sua attività l’hanno portato a cercare assistenza medica presso l’asilo notturno per senzatetto di Torino. O come quella di Rosa, un’ex-colf che, con una pensione di circa 600 euro al mese e una figlia affetta da sclerosi multipla, sceglie di non curarsi pagare le bollette e l’affitto.
In seguito alle misure di austerità, un’ampia fetta della popolazione italiana non riesce più ad accedere alle cure per ragioni economiche. Nel 2008, la spesa pubblica sanitaria in percentuale al Pil ha iniziato a decrescere, invertendo uno storico trend positivo e toccando il minimo del 6,4% nel 2018. Mentre la spesa pubblica in sanità si assottiglia, impennano gli out-of-pocket-payments (OOPs), ossia i pagamenti che gli utenti devono effettuare al momento dell’uso del servizio sanitario pubblico. Nel 2016, il livello di OOPs ha raggiunto il 23% o un quinto, della spesa totale sulla salute; più del doppio dei Paesi come la Francia e la Germania e non lontano da quelli di Spagna e Grecia. Non è una bella notizia, poiché gli OOPs sono ritenuti una barriera di accesso alle cure sanitarie e un ostacolo, dunque, alla copertura sanitaria universale.
Secondo il Rapporto Censis-Rbm, nel 2015, oltre 12 milioni di italiani hanno dichiarato di aver rinunciato alle cure per motivi economici, mentre 7,8 milioni hanno speso tutti i loro risparmi o si sono indebitati per far fronte alle spese mediche. I draconiani tagli alla sanità hanno anche esacerbato le iniquità socio-economiche. Infatti, dall’inizio della crisi, la percentuale di persone appartenenti al quintile di reddito più povero che dichiara di non aver avuto accesso alle cure per motivi economici, di distanza, o a causa di lunghe liste d’attesa, è cresciuta in modo significativo, raggiungendo quasi il 16% nel 2015. Le persone appartenenti al quintile più ricco, invece, non sono state per nulla intaccate dalla crisi. Similmente, è aumentato il divario tra tra Nord e Sud, e molte regioni stentano a garantire i Livelli essenziali di assistenza (Lea).
Fortunatamente, si è ancora in tempo per invertire la rotta: perfino il Fondo monetario internazionale (Fmi), che ha promosso politiche neoliberiste per decenni, ha recentemente rinnegato l’austerità e le politiche di privatizzazione della sanità. Come dimostrano i casi dell’Islanda e del Portogallo (post-2013), è possibile affrontare le crisi economiche senza necessariamente intaccare il diritto alla salute e all’assistenza sanitaria. L’austerità crea iniquità in sanità, e chiede ai più deboli di sobbarcarsi i costi di una crisi causata dai potenti.