Babbitt, di Sinclair Lewis (traduzione di Livio Crescenzi; Mattioli 1885), fu pubblicato per la prima volta nel 1922, lo stesso anno dell’uscita dell’Ulisse di James Joyce. Narra la storia di un agente immobiliare della borghesissima cittadina immaginaria del Midwest, Zenith, ossessionato dalla propria posizione nella società, suggestionabile elettore repubblicano, presbiteriano per comodo, tronfio delle proprie conoscenze tra gli uomini importanti della comunità e benvoluto nelle associazioni e nei club per gentiluomini. Altri decidono per lui cosa deve pensare su guerra, economia, lotte operaie, progresso e tasse. La pubblicità determina i suoi bisogni.
George F. Babbitt è un ingranaggio consapevole del sistema capitalistico, fiero di far parte della squadra vincente: “Il mondo non ne può più di tutti quei Paesi smidollati che non sanno produrre altro che lustrascarpe, bevande alcoliche e bei panorami, che non hanno nemmeno un bagno ogni cento abitanti, e non sanno distinguere un libro mastro a fogli mobili da una foderina lavabile; e ormai è giunto il momento che qualcuno di noi, qui a Zenith, drizzi la schiena e faccia sentire forte e chiara la sua voce! Date retta a me: Zenith e le città sorelle stanno producendo un nuovo tipo di civiltà. Ci sono molte somiglianze tra la nostra Zenith e queste altre città, cosa di cui sono maledettamente felice! La straordinaria, inarrestabile e sana standardizzazione di negozi, uffici, strade, alberghi, tessuti e abiti, e dei giornali di tutti gli Stati Uniti dimostra quanto il nostro tipo di gente sia forte e tenace”.
Il romanzo di Sinclair Lewis, anche grazie a una traduzione magistrale, si legge senza riuscire a staccare gli occhi dalle pagine. Ritmo dinamico, dialoghi che rasentano la perfezione della verosimiglianza letteraria, un gigantesco catalogo di tipi umani, credibili e pulsanti che, all’epoca, ha fatto compagnia ai profili tracciati nei lavori di Sherwood Anderson o Edgar Lee Masters, e fatto scuola a William Faulkner, fino ad arrivare a Manhattan Transfer di John Dos Passos. Babbitt è un capolavoro di un’attualità sconcertante. Basta spostare le coordinate geografiche e temporali, cambiare l’acconciatura alle ragazze e sostituire le Ford Model T con automobili contemporanee ed ecco che il caso umano di Babbitt si trasforma nell’elettore tipo degli ultimi 30 anni, quello che mette la croce sul simbolo a seconda di dove tiri il vento, il beota che crede alle fake news dei social network, lo sguaiato razzista nell’ora dell’aperitivo, il compratore compulsivo di prodotti in serie, il sonnambulo inchiodato davanti allo store Apple per avere il costosissimo nuovo modello dell’iPhone.
Poi, in questa magnifica opera letteraria, al protagonista succede qualcosa: si rende conto che forse esiste un modo diverso di affrontare la vita. Esiste il coraggio. L’autenticità contro l’omologazione. Babbitt, uomo privo di un vero carattere, scopre i piaceri della notte, la Combriccola dei danzatori, l’alcol, l’America selvaggia, le lotte operaie, un mondo straniero fuori dalla porta dell’ufficio, e alza, grottescamente, le barricate: “Costui si dilungò su tutti questi argomenti, senza dimenticare tre buffe storie su alcune idee sbagliate che gli europei hanno dell’America, terminando infine con alcune nobili considerazioni sulla necessità d’impedire agli stranieri ignoranti di mettere piede in America (…) Stronzate! Aria fritta! E che problema c’è con gli immigrati? Perdio, non è che siano tutti degli ignoranti, e poi… ho una mezza idea, se non ricordo male, che anche tutti noi discendiamo da qualche immigrato”.
Basterà sentirsi liberale per cambiare e lasciarsi alle spalle la vita dell’americano medio o, come avrebbe cantato 40 anni dopo Phil Ochs: I’ll send all the money you ask for/But don’t ask me to come on along/So love me, love me, love me, I’m a liberal? Non rimane che leggerlo per scoprirlo. Complimenti e sincera ammirazione, da lettore, per la casa editrice Mattioli 1885 e per Livio Crescenzi che ha curato e tradotto il libro. Una ventata di intelligenza in questo mondo, sempre più stupido.