Theresa May ha rinviato il voto del Parlamento sulla Brexit inizialmente previsto per la serata di martedì. Il primo ministro lo ha annunciato in un discorso non programmato a Westmister. Lo scopo: rinegoziare il capitolo dell’accordo raggiunto con Bruxelles sull’uscita dall’Unione Europea che riguarda il backstop, la clausola di salvaguardia sul confine irlandese. Tutto questo nel giorno in cui la Corte di giustizia europea ha stabilito che fino a quando l’accordo di uscita non entrerà in vigore, il Regno Unito potrebbe decidere unilateralmente di restare nell’Ue.
La May ne è consapevole: così com’è l’accordo non ha i voti per passare alla Camera dei Comuni. La premier ha passato il fine settimana al telefono con Angela Merkel, il presidente del Consiglio Ue Donald Tusk e l’omologo irlandese Leo Varadkar. Il tema è stato quello del backstop, la clausola dell’intesa raggiunta con Bruxelles che prevede che in mancanza di un accordo sui futuri rapporti tra le due sponde della Manica il Regno Unito resti in un unione doganale con l’Ue e l’Irlanda del Nord rimanga, invece, nel mercato unico dell’Unione in attesa di una soluzione. Un compromesso che non va giù a molti, in primo luogo agli unionisti nordirlandesi del Dup, preziosissimi alleati di governo con i loro 10 seggi in Parlamento. E a causa del quale l’accordo “verrebbe respinto con ampio margine”, ha ammesso lo stesso primo ministro.
Dopo che in tarda mattinata l’agenzia Bloomberg aveva fatto sapere che la May a rinviare il voto, il sottosegretario Nadhim Zahawi ha scritto su Twitter che la premier “ha ascoltato i colleghi (di governo) e andrà a Bruxelles per respingere il backstop”. Il tutto mentre il negoziatore tecnico del Regno Unito per la Brexit, Olly Robbins, è stato visto nella capitale belga arrivare alla Commissione europea. A Bruxelles May avrà una serie di colloqui urgenti con i leader Ue per discutere le possibili modifiche al backstop, ha annunciato lei stessa alla Camera dei Comuni in un discorso accompagnato da risate e urla di disapprovazione, con qualche parlamentare che ha anche chiesto a gran voce le dimissioni della premier. Più di una volta, durante l’intervento, lo speaker della Camera, John Bercow, ha dovuto richiamare all’ordine i deputati pregandoli di “dare la possibilità” al primo ministro di “farsi ascoltare”.
Replicando a una domanda della deputata scozzese Kirsty Blackman, May non ha voluto indicare una nuova data per il voto. In riferimento alla legislazione approvata per preparare l’uscita dalla Ue, la premier ha ricordato che se non ci sarà un accordo con Bruxelles entro il 21 gennaio, sarà costretta a fare un intervento in Parlamento, lasciando intendere che il nuovo voto potrebbe tenersi a gennaio.
“Non abbiamo più un governo funzionate”, ha commentato Jeremy Corbyn al preannuncio di un rinvio del voto. Il consiglio dei ministri giudica evidentemente “questo accordo così disastroso da scegliere la mossa disperata di un rinvio dell’11/ma ora”, accusa il leader laburista, rilanciando l’idea “alternativa del Labour di un’intesa che privilegi i posti di lavoro” da porre sul tavolo di “futuri colloqui con Bruxelles”.
La sentenza della Corte Ue – I giudici di Lussemburgo hanno stabilito che, “quando un Paese membro ha notificato al Consiglio europeo la sua intenzione di ritirarsi dall’Unione Europea, come ha fatto il Regno Unito, quel Paese membro è libero di revocare in modo unilaterale quella notifica”. E quella possibilità, sottolineano, “esiste fintanto che l’accordo di ritiro concluso tra l’Ue ed i Paesi membri non è entrato in vigore”, cioè nel caso del Regno Unito nel marzo 2019, o “nel caso in cui tale accordo non sia stato concluso, finché non sia scaduto il periodo dei due anni dalla data di notifica dell’intenzione di lasciare l’Ue o ogni sua estensione”.
La sentenza “non altera il referendum del 2016, né la chiara volontà del governo di assicurare che il Regno Unito lasci l’Ue il 29 marzo“, ha detto il ministro dell’Ambiente, Michael Gove, commentando il verdetto. “Noi non vogliamo restare nell’Ue – ha puntualizzato Gove – 17,4 milioni di persone hanno mandato un messaggio chiaro. E questo significa che lasceremo anche la giurisdizione della Corte di Giustizia Europea”. Anche il ministro degli Esteri britannico Jeremy Hunt ha definito “irrilevante” la sentenza: “Immaginate come si sentirebbe il 52% del Paese che ha votato per la Brexit se un qualsiasi governo ritardasse l’uscita. Penso che la gente sarebbe molto arrabbiata e di certo non è nostra intenzione”.
Martedì 11, Theresa May dovrebbe cercare in Parlamento il via libera all’accordo, ma negli scorsi giorni è cresciuta l’ipotesi che il governo si spacchi davanti all’ipotesi di un secondo referendum sulla Brexit. Il Guardian ha delineato un quadro sempre più complesso per la premier britannica: secondo l’autorevole quotidiano, la premier appare ormai “preparata a nuove dimissioni di ministri e collaboratori che vogliono un altro referendum” dopo quello del 2016 “o che credono che l’accordo raggiunto” dal primo ministro con l’Ue “non garantirà la Brexit”.
Il rinvio del voto – L’ipotesi del rinvio del voto, anticipata domenica 9 dicembre dai media, era stata ripetutamente smentita da Downing Street, oltre che dal ministro Stephen Barclay.
Ma ha continuato a circolare e ha ripreso quota in queste ore sullo sfondo delle notizie su una serie di colloqui avuti nelle ultime ore da Theresa May con vari leader di Paesi Ue – fra cui il premier irlandese Leo Varadkar e la cancelliera tedesca Angela Merkel – con il probabile obiettivo di spuntare in extremis da parte dell’Ue (e malgrado gli insistiti no di Bruxelles, ribaditi ancora oggi) un alleggerimento del testo sul backstop: il meccanismo vincolante di salvaguardia del confine aperto Irlanda-Irlanda del Nord che molti deputati britannici contrari all’accordo considerano cruciale per il loro dissenso. Ora l’annuncio sull’intervento di May ai Comuni elimina di fatto gli ultimi dubbi sull’intenzione di rinviare: tanto più che dopo di lei interverrà la ministra per i Rapporti con il Parlamento, Andrea Leadsom, incaricata di dare indicazione di norma sull’agenda degli impegni governativi a Westminster.