Politica

Populismo, ecco cinque accezioni per capirlo meglio. E per smettere di accusare il governo

La neolingua del dominio, con i suoi deliberati effetti babelici, continua nell’opera di manipolare i significati delle parole in uso nel dibattito pubblico per ricavarne preziose posizioni di vantaggio. La vecchia tecnica riportata a nuovo (e amplificata oltre l’immaginabile dalle inusitate potenzialità delle tecnologie Ict) di mettere in un angolo l’avversario mediante “bollature” infamanti. Ultimo esempio in ordine di tempo è l’uso denigratorio del termine populista da parte dei settori di vertice della piramide sociale votati al mantenimento dell’attuale sistema delle disuguaglianze, da loro controllato e/o di cui sono i beneficiari. Operazione che mette al lavoro opinion makers e sistema mediatico in genere, delegati a fomentare il confusionismo. Sicché i gilets jaunes, l’ultima generazione di indignati, apparterebbero alla stessa specie che annovera la parte del privilegio che pratica la demagogia come strategia di potere: da Donald Trump a Boris Johnson, da Viktor Orban a Beppe Grillo.

Il mio antico sodale Mauro Barberis, filosofo del diritto e frequentatore di questo stesso sito, ha provato a mettere ordine in tale guazzabuglio concettuale proponendo cinque indicatori di riconoscimento del morbo (?) populista: l’appello al popolo, l’ostilità all’establishment, la personalizzazione della politica, la mobilitazione mediatica, la semplificazione del messaggio.

Insomma, i tratti (in)distintivi di un’araba fenice che – con le parole del poeta – “ci sia ciascun lo dice / dove sia nessun lo sa”. Difatti “l’appello al popolo” vale per qualunque proposta venga avanzata nell’arena democratica, “l’ostilità all’establishment” è una costante dall’avvento dei partiti di massa con l’allargamento del diritto di voto, “la personalizzazione della politica” non è altro che l’enfatizzazione delle derive leaderistiche novecentesche grazie al contagio star-system postdemocratico e marketing oriented, “la mobilitazione mediatica” imperversa dal tempo dello storico scontro televisivo Kennedy-Nixon, di cui “la semplificazione del messaggio” è diretta declinazione secondo le regole proprie della comunicazione commerciale.

Semmai, se proprio volessimo evidenziare un tratto distintivo, costante dei “populismi” a partire dagli ultimi due secoli, è la presunzione di un popolo incontaminato, cui fare riferimento per purificare la politica dai maneggi del professionismo spregiudicato e tendenzialmente corrotto. Un po’ poco per configurare un movimento che sta assurgendo al rango di protagonista globale. Che difatti si tende deliberatamente a confondere con altri due soggetti collettivi: il sovranismo e il suprematismo. Che non c’entrano niente con l’auspicata rigenerazione etica della politica come retro-pensiero populista.

Il sovranismo altro non è che il ripiegamento sull’ideale nazionalista, già accantonato per l’accertata incapacità di governare processi che fuoriescono dai perimetri dello Stato nazione. Suprematismo è il nome nuovo a una vecchissima e spregevole conoscenza: il razzismo. Entrambi mostri evocati dal sonno della ragione. Ben diverso quello che chiamiamo populismo, depurato dalle commistioni indebite con l’ala demagogica (e camaleontica) del privilegio, della plutocrazia di ritorno attualmente egemone. Che a parere dello scrivente andrebbe rinominato “AltraPolitica”.

Infatti il suo ritorno sulla scena pubblica (e l’avvio della campagna denigratoria nei suoi confronti) coincide con l’apparire dei primi movimenti popolari di denuncia dell’orrore economico come sbaraccamento dello Stato sociale da parte delle oligarchie finanziarie e del disarmo tecnocratico-finanziario imposto alla politica: gli indignati del 2011. Ossia la denuncia delle logiche con cui le classi dirigenti globali hanno affrontato la crisi sistemica determinata dall’esplosione delle bolle create da mastodontiche operazioni speculative di produzione di denaro a mezzo denaro. Logiche tradotte nella perniciosa ricetta (derisoriamente) definita “keynesianesimo privatizzato”: se nella veneranda ricetta classica si esce dalla crisi economica attraverso l’investimento, e questo fa capo allo Stato, nella sua versione “privatistica” l’investimento anti-ciclico c’è sempre ma si imputa all’area mediana della società, sotto forma di precarizzazione del lavoro e impoverimento delle famiglie. La crescente disuguaglianza.

Se l’AltraPolitica definita populista cerca di combattere gli effetti anti-popolari dell’egemonia plutocratica, si può ben dire che – a differenza di fenomeni regressivi quali l’appello taumaturgico alle piccole patrie (sovranismo) o il richiamo xenofobo alla purezza etnica (suprematismo) – sta in questo campo, ancora alla ricerca della propria identità compiuta, l’unico soggetto arruolabile al compito di rifondare una democrazia zavorrata dalle scorie che ne avevano indebolito la credibilità. La capacità di fare da baluardo ai mostri che popolano la scena mondiale: generati tanto dalla paura di rinunciare a privilegi ingiusti quanto dallo smarrimento innanzi alla fine di una fase storica, che si vorrebbe lenire traendo dal sacello soluzioni di un passato alquanto ignobile.

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