Lettura, movimento, hobby. Persino mostre, ma soprattutto famiglia: secondo il ministro dell’Istruzione in area leghista Marco Bussetti è così che gli studenti dovrebbero passare le vacanze di Natale. E così ha annunciato che invierà una circolare ai dirigenti affinché sensibilizzino il corpo docente su una riduzione dei compiti durante le vacanze. In modo che i ragazzi possano godersi le feste, stando con i propri parenti. Un’immagine bucolica, quella prospettata dal ministro, che unita all’appello per un’eliminazione dei compiti durante le feste ha suscitato un vespaio di polemiche. E giustamente, perché si tratta di un’uscita goffa e infelice, ma soprattutto dettata da ideologia e ancor più, a mio parere, da una discreta ignoranza.

Compiti sì o no. Anche se “il problema non è tanto questo interrogativo, ma capire qual è l’obiettivo di apprendimento dei nostri bambini”, nota ad esempio il professor Benedetto Vertecchi, con cui ho avuto un confronto sul tema. Cosa vogliamo che i nostri figli sappiano, con quali competenze devono uscire dalla scuola per affrontare l’università e comunque la vita stessa? Questo è un tema enorme, che tra l’altro richiede competenze anzitutto scientifiche, statistiche, sperimentali che questo ministro dell’Istruzione non sembra avere per nulla. Quanto all’appello alla famiglia, bisogna pure chiedersi che cosa significhi oggi famiglia, di che cosa esattamente parliamo, dal momento che la “naturale-tradizionale” è scomparsa da tempo.

Ma poi, soprattutto, che senso ha dire che i bambini debbano andare alle mostre o stare in famiglia o praticare hobby se non c’è nessuna indicazione/prescrizione della scuola stessa in tal senso? E sono le famiglie capaci di mettere in pratica questi obiettivi? Perché forse dovrebbe essere la scuola stessa a organizzare attività diverse – culturali, creative – durante le vacanze, per consentire ai bambini di accedere a esperienze importanti, “anche se gli insegnanti dovrebbero essere adeguatamente formati, se no non serve a nulla”, nota sempre Vertecchi. Altrimenti finisce che la famiglia povera, sia materialmente che culturalmente, non farà fare nulla di quanto indicato dal ministro, mentre quella con più opportunità potrà dare al proprio figlio occasioni culturali di apprendimento.

Comunque sia, una cosa è certa: il bambino – quello meno favorito così come quello più favorito – un maggiore tempo libero lo spende unicamente con l’unica cosa che purtroppo gli interessa e da cui è emotivamente e cognitivamente dipendente: gli schermi, tutto ciò che riguarda la riproduzione di contenuti digitali, con particolare predilezione per i videogiochi che ormai dilagano anche nelle sale d’aspetto, nei ristoranti, ovunque. Lasciare più tempo libero, dunque, non porta certamente alla lettura stretti stretti con la mamma – che magari, tra l’altro, lavora – ma solo al fatto, mi dice sempre Vertecchi “che invece di cinque ore di tv e videogiochi ne avranno otto”. Basterebbe una videocamera installata di nascosto nelle nostro famiglie per dimostrarlo in maniera lampante.

Purtroppo, poi, la stessa definizione di “compiti” non aiuta, come mi spiega sempre il professor Vertecchi: “Meglio il francese devoir, dà un’idea del fatto che la scuola imponga degli obblighi, da noi ‘compiti’ rimanda invece a un’attività che dovrebbe congiungersi a un’altra attività che è già in corso a scuola. E comunque sui compiti non ci sono due scuole che seguano gli stessi criteri”. Compito può essere qualunque cosa: un’attività ripetitiva, stupida – sì, a volte sono stupidi – e poco utile quanto il suo contrario. Il problema dunque, ancora, non è chiedersi se sia meglio dare o no i compiti ma capire dove si vuole arrivare. E se si vuole arrivare a competenze di base fondamentali, quelle che i nostri ragazzi che escono dal liceo non hanno, è probabile che un maggior tempo di studio – che onestamente oggi è veramente ridotto a tempi quasi ridicoli, specie se confrontato con quello che facevamo noi da piccoli e ancor più i nostri nonni – sia invece assolutamente utile.

E infatti è probabile che ogni ora in più di lettura e ogni sforzo riflessivo in più senz’altro sottraggono i ragazzi da attività che verosimilmente culturali non sono, perché appunto quasi esclusivamente siamo di fronte a bambini e adolescenti già dipendenti digitali. “Paradossalmente le opportunità di apprendimento dei nostri bambini sono limitate, perché l’apprendimento passa attraverso l’esperienza verbale e l’esercizio di una manualità che vanno progressivamente scomparendo. Basti pensare a quelle famiglie al ristorante dove i ragazzini, ma pure gli adulti, sono concentrati unicamente sullo schermo. È questa l’esperienza familiare cui il ministro pensa?”, si chiede Vertecchi.

A ogni uscita di questo ministro, poi – ricordate quella sul presepe e ancora il crocifisso? – provoca un certo dolore e sconcerto. Ci si chiede, come ha fatto Alex Corlazzoli nel suo blog su questo giornale, come mai i Cinquestelle abbiano lasciato ai leghisti un ministero così cruciale, così fondamentale come quello dell’Istruzione. Dimostrando purtroppo, esattamente come tutta la classe politica che li ha preceduti, che in fondo l’Istruzione non conta, che in fondo la ricerca è secondaria. E dire che prima di andare al governo avevano sempre sostenuto il contrario, facendo invece della scuola un punto di forza tematico e programmatico. Dopo aver immolato gli immigrati sull’altare dell’accordo con la Lega, sembrano fare lo stesso, sia pure solo culturalmente, con gli studenti. In entrambi i casi, il compromesso mi sembra insopportabile.

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