Negli ultimi giorni la stampa ha dato pessimi esempi sulla narrazione della violenza contro le donne. Luisa Betti Dakli ha criticato la narrazione tossica sul femminicidio di Cinzia Palumbo e dei suoi due figli, Daniele e Gabriele, avvenuto a Paternò in provincia di Catania. Gianfranco Fallica, il padre e marito che ha sterminato la famiglia è stato descritto come un “ragazzo d’oro” e l’ennesimo caso di violenza contro una donna come “raptus di gelosia” .

Ma i pessimi esempi abbondano anche nelle pagine di piccoli quotidiani locali. L’8 dicembre scorso su Vicenza Più è stato pubblicato l’articolo “Femminicidi ma anche no: diffidare delle convinzioni che sorgono dalle sole cattive esperienze” in risposta ad una lettrice che contestava le dichiarazioni del Comandante dei Carabinieri Alberto Santini sul femminicidio di Anna Filomena Barretta avvenuto a Marano Vicentino: “Sono delitti passionali, non chiamiamoli femminicidi”. Giuseppe Di Maio che ha firmato la replica alla lettrice, fin dalle prime righe lamenta che la parola femminicidio gli avrebbe “bombardato gli zebedei” dando sfogo ad una crisi viriloide senza farsi scrupolo per la sua mancanza di rispetto delle vittime e dei loro familiari. E ne scrivo perché la sottocultura di cui secondo me è portatore questo giornalista riguarda una buona fetta del Paese e attraversa luoghi privati e istituzionali, le redazioni come le piazze.

Nel suo lungo articolo disinformazione e pistolotti, benaltrismo e inesattezze si intrecciano alla pretesa che non si nomini più il femminicidio (proprio come il comandante dei Carabinieri di Vicenza) perché c’è il problema della mafia, della corruzione, dell’inquinamento ambientale, dei morti sul lavoro ma se una donna chiede aiuto e viene ammazzata insieme ai figli non è problema che merita attenzione politica e sociale anche se le sono sono stati negati diritti e sicurezza. Quella sicurezza che si rivendica per chi viene aggredito per strada o in casa purché a delinquere siano estranei. Se l’assassino o lo stupratore hanno le chiavi di casa e la minaccia e la violenza stanno dentro le mura domestiche allora la questione viene spesso percepita come un fatto privato che deve essere estraneo alla giurisdizione e che non riguarda la politica.

Non è un caso che nell’articolo di Giuseppe Di Maio ci sia persino il rimpianto dei tempi in cui “la donna romana e greca, erano signore” ovvero ai tempi in cui il pater familias era il giudice assoluto e senza limiti nella famiglia e poteva passare a fil di spada senza esitare: moglie, figli, servi, schiavi e armenti. Alle grandi lacune storiche si aggiungono lacune nelle scienze statistiche e nell’analisi di fenomeni sociali dando fiato ad una analisi farlocca su fenomeni distanti tra loro. Si paragonano i crimini che vengono commessi in famiglia e colpiscono maggiormente le donne con quelli commessi dalla micro e macrocriminalità o gli incidenti sul lavoro che colpiscono maggiormente gli uomini, dimenticando che gli imprenditori che espongono altri uomini al rischio di morire per lavoro e gli autori di crimini sono sempre in gran numero uomini (il 95% dei carcerati sono uomini). Costruzione delle identità di genere, potere, accaparramento di risorse, violenza in che relazione stanno fra loro e me lo domando perché sono fermamente convinta che la violenza non sia qualcosa che si annidi biologicamente nel dna maschile.

Ma nell’articolo si tira in ballo ancora altro: citazioni di ignote ricerche ma senza mettere uno straccio di link o di riferimento, la povertà dei padri separati ma non quella delle madri separate anche se l’Istat ha rilevato fin dal 2011 che dopo la separazione sono le donne ad essere più povere e ancora la trita fake news delle “false denunce” spacciando le archiviazioni per calunnie.  Un’indagine condotta nel Tribunale di Milano tra il 2010 e il 2017 da Claudia Pecorella e Patrizia Farina, dal titolo “La risposta penale alla violenza domestica: un’indagine sulla prassi del Tribunale di Milano in materia di maltrattamenti contro familiari e conviventi”, mette in evidenza le criticità del sistema penale nella tutela dei diritti delle donne per l’inadeguatezza del reato di maltrattamenti previsto dall’articolo 572 del c.p. nella relazione di coppia quando non sia evidente la posizione di sottomissione e soggezione della vittima”, inoltre i procedimenti sono ancora fortemente condizionati dalla volontà delle vittime che spesso ritrattano perché sono passati troppi anni tra il momento della denuncia e il processo. Le archiviazioni sono un prodotto dell’inadeguatezza del sistema di tutela delle donne che subiscono violenza (l’Italia è stata condannata dalla Corte di Strasburgo per la violazioni degli articoli 2, 3 e 8 della Convenzione di Istanbul) per la scarsa efficienza della giustizia oltre che incapacità di distinguere tra conflitto e violenza che spesso è stata causa di morte per donne abbandonate a se stesse nonostante le denunce.

Ma la parte più inquietante scritta da Giuseppe Di Maio che suppongo sia nato dopo la promulgazione della Costituzione è la confusione tra i diritti delle donne e le “pretese”. Il giornalista mette in discussione il diritto di ricevere la stessa retribuzione a parità di competenze e di mansioni e già che c’è la libertà delle donne di separarsi. Scrive: “Il definitivo colpo di grazia alla famiglia tradizionale, creando un tipo di donna sempre più irresponsabile della sopravvivenza del vincolo, e verso cui confluiscono tutte le garanzie e le generose indulgenze dei maschi. La donna che oggi emerge brama di essere vincente” ed è come se duecento anni di storia di diritti delle donne, di convezioni internazionali per la tutela dei loro diritti, compresa la riforma del diritti di famiglia negli anni 70, siano trascorsi invano per quest’uomo.

E’ spiazzante che siano ancora così tanti quelli che non riescono ad accettare che le donne non siano più roba di cui disporre a piacimento e siano convinti che quei diritti siano relativi e più attinenti con la moda dei tempi piuttosto che con diritti universali. “Indulgenze” o “garanzie“, insomma gentili concessioni da parte dei maschi che pensano di poter revocare anche in nome di una sottocultura arcaica e violenta o riproponendo come valore il matrimonio indissolubile. E non sono queste le stesse convinzioni che animano tutto il disegno di legge Pillon?

Il backlash è in difesa della conservazione dell’istituzione famiglia intesa come ideale assoluto quando nella realtà, in molte famiglie si consumano violenze e abusi di potere. Nefandezze che nel trascorrere dei secoli sono state taciute tra omertà e silenzio tra ipocrisie e contraddizioni. Una sottocultura che tanti oggi, non solo il signor Giuseppe Di Maio, vogliono legittimare insieme ad una massiccia dose di misoginia e che va contrastata in ogni luogo.

@nadiesdaa

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