Emanuele Giovagnoli viene da Offagna, piccolo borgo nelle Marche. Due anni dopo il trasferimento in Uk ha realizzato il suo sogno: girare il mondo con la musica. "In Italia è difficilissimo entrare nel giro dei 'big'. Qui ho mandato una mail e ci sono arrivato"
“C’è un treno che parte, sali o non sali?”. L’avventura di Emanuele Giovagnoli è iniziata nel 2012 con questa domanda. Allora aveva 29 anni, e da Offagna, piccolo borgo nelle Marche, si era appena trasferito a Londra. Oggi di anni ne ha 35 ed è il sound engineer dei Jethro Tull, storico gruppo prog nato nel 1967. “In Italia facevo il backliner (l’accordatore di chitarre sul palco, ndr) e non vedevo possibilità di crescita. Qua lavoro per una band che quest’anno festeggia 50 anni di attività e con loro faccio tour in tutto il mondo – racconta Emanuele a ilfattoquotidiano.it –. Il mio successo è stato dettato da un mix di paraculismo e fortuna”.
Classe 1984, dopo sei anni con loro oggi Emanuele si sente parte del gruppo. L’inizio però non è stato facile. “Mi sono trasferito a dicembre 2010. Avevo 27 anni e ho ricominciato da capo. Scaricavo camion come facchino e facevo panini per 5 pound all’ora. Ogni giorno mi chiedevo se ne fosse valsa la pena visto che in Italia comunque lavoravo nel mondo della musica”. Poi, grazie a una mail fortunata, la svolta. “Scrivevo tutti i giorni ai manager dei gruppi, cercavo gli indirizzi su google. Mandavo anche centinaia di mail al giorno. Fino a quando, un giorno, James Anderson (il figlio di Ian, il fondatore della band) mi ha dato la possibilità di incontrarlo di persona”. La posizione aperta era quella di sound engineer, il tecnico che ad ogni concerto o esibizione si occupa del mixer, dei microfoni, e in generale di tutta la gestione dell’audio. Un lavoro che Emanuele non aveva mai fatto. “Era una possibilità che non sarebbe più ricapitata. Così quando mi hanno chiesto se sapessi usare il mixer, ho detto di sì. Prima della serata di prova ho studiato quello che avrei dovuto usare sui tutorial di You Tube ed è andata bene. Il resto l’ho imparato on the road e nei vari festival”.
Quella di buttarsi alla cieca è stata una scelta che nel suo caso è stata azzeccata. “Non volevo trovarmi a 40 anni a chiedermi cosa sarebbe successo se ci avessi provato o meno”, dice ancora Emanuele che ha confessato solo molte trasferte e concerti dopo la “bugia” di quel primo incontro. “La band l’ha saputo solo cinque anni dopo. Per ‘punirmi’ mi hanno preso in giro nel libro del tour, dove hanno scritto che avevo fatto richiesta per lavorare nel catering”.
“Sognavo un tour mondiale, ne ho fatti sei. Sono stato due volte in Australia, tre in Sud America e 15 negli Stati Uniti“, prosegue. In Italia tutto questo sarebbe stato un miraggio. Solo con i big della nostra musica, infatti, si raggiungono risultati simili. Ma arrivarci è molto complicato. “In Italia abbiamo Zucchero, la Pausini, Jovanotti, ma è un circuito molto ristretto. Una volta che un artista trova il suo staff, il ricambio è difficile – spiega Emanuele –. Prima collaboravo con una grande società di eventi live. Senza nulla togliere agli artisti con cui ho lavorato, sentivo di non poter crescere qualitativamente. Così mi sono dato una scadenza: fare un tour mondiale prima dei 30 anni”.
La differenza tra i circuiti musicali italiani e quelli internazionali sta soprattutto nel riconoscimento dell’importanza della musica. “Solo tra i ‘big’ è davvero considerato un lavoro. Non c’è, per esempio, la cultura del ‘tour bus’. Fai parte della road crew, giri come un matto in estate. Macini chilometri, in autostrada, ma non è ritenuto importante come qui. Ho fatto dieci anni di feste in sud Italia, per esempio. Venivo pagato a serata. Dopo che fai Trento-Cosenza a Ferragosto, tutto di corsa e per 150 euro, ti chiedi se vuoi andare avanti così”. Il pop italiano comunque, nel quale Emanuele ha ‘militato’ da quando aveva 21 anni, è stato il suo trampolino. “Devo tutto a quell’esperienza”, dice. Se dovesse essere paragonato a qualche settore nel nostro paese, per Emanuele “il business della musica in Inghilterra è impostato come per noi un’azienda edile. È trattato come un settore che fattura – continua -. Anche il circuito underground degli artisti minori qui ha tanto movimento”.
Ad avallare il diverso ‘peso’ della musica nella multiculturale città inglese sono le opportunità che ha avuto grazie ai suoi anni con la band rock. “Ho conosciuto e condiviso palchi con i fratelli Gallagher, membri dei Doors, i Prodigy. Il mio oggi è un biglietto da visita che apre molte porte – spiega –. Qui sono responsabile dell’installazione audio al nuovo quartier generale della Universal Music, ho una piccola sound company a Londra e sono fornitore di impianti per eventi in autonomia. In una città che vive giorno e notte come questa ti puoi permettere di fare tante cose e di costruirti tanta esperienza”.
La passione per la musica ha origini lontane, che partono da una chitarra acustica “eko” a 12 corde e arrivano all’elettrica Gibson Les Paul del ’72. “Ho aperto per caso una custodia di mio padre – racconta Emanuele – aveva un fascino tutto suo. Avevo 9 anni e me ne sono innamorato pur non sapendo cosa fosse”. E quell’amore per la musica non è mai passato. “È un mondo guidato dalla voglia di sognare e dall’emozione. Ancora oggi ho i crampi allo stomaco e la pelle d’oca quando sento gli applausi a inizio concerto”.
L’idea di tornare in Italia non è nei piani, nonostante la Brexit. “Dal referendum mi sono sentito pugnalato alle spalle. Sono cresciuto alle elementari con il libro Cittadini d’Europa. Così distruggono il sogno di una generazione a cui l’Unione europea era stata venduta come un’istituzione fatta di ‘pace e amore'”. Solo se riuscisse a lavorare con gli Oasis, forse, potrebbe considerarsi così soddisfatto da volere tornare, un giorno. “Conoscerli è stata già una soddisfazione. Se mi chiamassero andrei subito. Poi tornerei, consapevole però di sapere esattamente dove sto andando. Tra i tanti mi piacerebbe lavorare con Omar Pedrini, che ammiro molto”. Poi conclude: “In Italia siamo genuini. La stessa genuinità per la quale quando torno mi siedo ore al bar del paese. Siamo veri”.