Squalificato per due mesi e multato di 500 euro perché non ha chiesto il permesso di denunciare chi lo aveva preso a calci e pugni in faccia. Nella estrema periferia del calcio italiano succede anche questo, a causa dell’applicazione ferrea di una regola che dovrebbe salvaguardare l’autonomia dell’ordinamento sportivo, ma che alla fine può avere l’effetto di limitare il diritto inalienabile di ricorrere alla giustizia ordinaria. Si tratta della cosiddetta clausola compromissoria, ovvero l’obbligo per chiunque faccia parte di una società calcistica di legare un’eventuale azione penale contro un altro tesserato all’ottenimento del via libera da parte degli organi federali. Con un paletto: la norma è superata se il reato è procedibile d’ufficio e non a querela di parte. Nel caso di lesioni gravi (almeno 20 giorni di prognosi), insomma, la clausola salta. Il che produce un paradosso: per denunciare un collega alle forze dell’ordine senza chiedere il permesso, il calciatore in questione deve aver subito danni fisici seri. L’eventualità è praticamente inesistente in Serie A e nelle altre categorie professionistiche, ma basta perdersi nei campi polverosi di provincia per comprendere come la clausola compromissoria diventi un ostacolo non da poco in un’altra partita, quella contro la violenza. La cronaca, in questo senso, vale più di ogni regolamento.
Il 29 ottobre di un anno fa è una domenica mattina come tante a Milano: in attesa delle partite di Serie A, scendono in campo i ragazzini e i dilettanti. Nel quartiere Gorla si gioca la gara di Terza Categoria, girone B Milano, tra Asd Crespi 2017 e Real Crescenzago. Una partita come tante: nessun campione, tanta voglia di divertirsi e altrettanto agonismo. Anche troppo. E così succede che dopo uno scontro di gioco volano parole grosse (e forse anche altro) tra due calciatori: Pasquale Caputo dell’Asd Crespi viene espulso; Emiliano Morselli del Real Crescenzago resta in campo. E fin qui nulla di particolarmente strano, al netto delle intemperie di chi ha dovuto abbandonare il match e dei suoi tifosi sugli spalti. Poi la minaccia: “Ti aspetto fuori”. Finisce la partita, Morselli entra nello spogliatoio e, dopo la doccia, si rende conto che effettivamente ad aspettarlo c’era un gruppetto di persone con intenzioni bellicose. Morselli ha paura, decide di chiamare la polizia. Nel frattempo la situazione sembra calmarsi e Morselli esce. Attende qualche altro minuto e si avvia verso la sua auto per abbandonare il campo e dimenticare la brutta esperienza. Che però doveva ancora iniziare. A bordo di un’auto arrivano tre persone, tra cui Pasquale Caputo, il calciatore espulso dopo la lite in campo. È una spedizione punitiva (peraltro al di fuori della struttura sportiva): calci e pugni, Morselli urla, alcuni compagni di squadra accorrono per difenderlo, i tre aggressori fuggono. Arriva la polizia, che chiama un’autoambulanza e consiglia a Morselli di denunciare chi lo ha picchiato. Il calciatore viene portato all’ospedale Niguarda: trauma cranico, cinque giorni di prognosi. Gli è andata bene. Il giorno dopo Morselli va in questura e denuncia Caputo per lesioni personali e minacce, la sua società informa dell’accaduto il Comitato regionale della Lega Nazionale Dilettanti.
A questo punto la giustizia ordinaria e quella sportiva prendono strade diverse. Per Caputo scatta il Daspo di due anni, mentre il giudice sportivo lo squalifica per tre giornate. Nel frattempo la Procura federale fa partire le indagini, che si concludono a settembre 2018 con il deferimento di Caputo e di Morselli (e delle rispettive società per responsabilità oggettiva). Il 15 novembre scorso arriva la decisione definitiva: l’Asd Crespi e il Real Crescenzago vengono multate (150 e 400 euro di ammenda), Caputo viene squalificato per cinque mesi (provvedimento che viene ‘superato’ dai due anni di Daspo decisi dall’autorità giudiziaria) per “aver commesso atti di violenza nei confronti di Morselli”. A quest’ultimo, invece, viene inflitta una multa di 500 euro e una squalifica di due mesi “per non aver richiesto l’autorizzazione ai competenti organi federali al fine di procedere in sede giudiziaria penale“. La sua colpa? Ha violato la clausola compromissoria perché ha denunciato chi lo ha aggredito senza chiedere il permesso a chi di dovere. Con ilfattoquotidiano.it Morselli ha poca voglia di parlare: dopo quanto accaduto ha smesso di giocare e non riprenderà mai più. A fare male non sono stati i calci e i pugni ricevuti: ha denunciato la violenza subìta ed è stato squalificato, era convinto di aver fatto la cosa giusta (peraltro consigliato dagli agenti) ed è stato punito perché non ha chiesto il via libera a chi gestisce il calcio. Il processo penale va avanti, ma c’è già uno sconfitto: il pallone amatoriale, quello lontano dai riflettori, dalla fama e dai soldi. In una parola: quello degli italiani.
Da quanto risulta a ilfattoquotidiano.it, la Federazione italiana gioco calcio è a conoscenza della vicenda. Al netto di un problema reale di informazione (non tutti i tesserati sanno dell’esistenza della clausola) e pur difendendo lo spirito originario che ha portato alla nascita della norma, negli uffici romani della Figc si sta valutando lo studio del caso in questione e di altri analoghi per capire l’impatto che possono avere sul sistema. È presto per parlare di possibile modifiche, anche se il buon senso suggerisce che si tratta di un paletto pericoloso. Perché non scoraggia la violenza, ma la declina in due forme: lieve e grave, affidando il diritto di poter denunciare alle prognosi dei medici. E al caso: perché se Morselli fosse stato colpito alla tempia e non alla fronte, ora si parlerebbe di ben altro. E il diritto di denunciare liberamente il pericolo scampato non può misurarsi in centimetri.