Dal 2007 nell'elenco delle 3mila attività soggette a imposizione c’è anche quella delle "accompagnatrici" che possono aprire una partita Iva e richiedere il blocco delle ricevute da rilasciare al cliente in forma anonima, al pari di una lavanderia. Ma la politica gira attorno al problema lasciando chi esercita alla mercé dei criminali. E il fisco non incassa quanto potrebbe
“Oltre un milione di euro, capisci? Questo Stato è il peggiore dei papponi”. Passeggia per via della Moscova coi sui cagnetti, ma ha un diavolo per capello Efe Bal, il trans più famoso d’Italia che invoca “pace fiscale” per tutte le prostitute d’Italia. Ricevuta l’ultima maxi-cartella Equitalia, per oltre un milione, ha girato i salotti della tv denunciando che “solo un pappone chiede tanto senza darti nulla. Vorrei pagare le tasse ma non posso, perché la prostituzione non è riconosciuta e non me lo stesso Stato non me lo permette”. Ma le prostitute in Italia le tasse possono pagarle eccome, senza neppure nascondersi o esporre i clienti. Basta usare gli strumenti che già ci sono. Tra le attività soggette a imposizione, da oltre dieci anni, c’è quella specifica per le“accompagnatrici”. È legata a tre numerini, e chiunque abbia a cuore il Pil e la legalità di questo Paese dovrebbe segnarsi.
Le prostitute in Italia non pagano le tasse, si sa. Nella maggior parte dei casi perché esercitano la professione per costrizione e il rapporto col Fisco è l’ultimo dei loro problemi. Altri o altre invece per convenienza, preferendo tenersi l’intero incasso di giornata. Il terzo motivo è perché poco o per niente lo pretende lo Stato, che ha gli strumenti per farlo ben si guarda all’usarli: per non turbare la santa quiete da ipocrisia generale, lascia correr via quel fiume di denaro che ingrossa le vie del sommerso lontano dalla fiscalità generale e dalla crescita del Pil. Ma non per questo si può dire che impedisca ai mercenari del sesso di essere fedeli contribuenti.
Per legge, il nostro Stato tassa perfino i criminali, imputando loro coattivamente il pagamento di Iva e Irpef sui patrimoni che hanno accumulato da proventi illeciti. E la prostituzione non è neppure un reato, perché tali sono lo sfruttamento e l’induzione. Può farlo, sempre qualora un reddito emerga, grazie a una legge del 1993 (n.537, art. 14, comma 4) che recita: “Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi […] devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”. Sgomberato il campo dall’equivoco, resta la questione fiscale. Dicono le Efe Bal d’Italia che una prostituta non può essere in regola col Fisco. E che faccio, faccio una fattura al cliente?
La risposta è sì, e sta in tre numeri: 96.09.03. Chi volesse risollevare il Pil nazionale dovrebbe segnarseli, come la prostituta che volesse mettersi in regola. È la combinazione alfanumerica del codice Ateco, che sta per Attività Economica, necessario per l’apertura di una nuova partita Iva. In questo caso infatti, occorre comunicare alle Entrate la tipologia dell’attività sulla base di tale classificazione individuata ai fini fiscali, contributivi e statistici. Va dal meccanico al riparatore di tappeti, secondo la combinazione di lettere che individuano il macro-settore economico e numeri (da due fino a sei cifre) che rappresentano, con diversi gradi di dettaglio, le specifiche articolazioni e sottocategorie dei settori stessi. Scorriamo gli oltre 3mila numeri e andiamo a “R” 96 che sta per “altre attività di servizi alla persona” e al punto 09.03: leggasi “Agenzie matrimoniali e di incontro”, la cui specifica contempla espressamente la dicitura “attività di accompagnatrici”. Bingo.
Chiamiamo l’Agenzia delle Entrate per conferma e sì, una prostituta può benissimo aprirsi la partita Iva, richiedere il blocchetto delle ricevute da lasciare al cliente, anonime al pari di quelle della lavanderia e del ristorante, e dichiarare a fine mese l’incasso. Così facendo, Equitalia scompare, il titolare della posizione evita guai e può anche ottenere diritti conseguenti, come la possibilità di versare contributi previdenziali e di detrarre spese per familiari a carico. Ma sempre dal Mef si fa notare che in realtà dal lontano 1973 (dpr n.597 art.80) era prevista l’imposizione di soggetti che esercitano attività difficilmente inquadrabili e anche illecite sotto la voce generica “altri redditi”. Ma il Fisco stesso l’ha disapplicata perché la norma, per via della sua stessa genericità (“altri”) si prestava ad applicazioni arbitrarie in violazione del dettato costituzionale e a infiniti contenziosi in sede tributaria. La politica avrebbe dovuto riscrivere per tempo la materia, ma se n’è guardata bene. Resta il fatto che se il soggetto l’avesse voluta utilizzare per “emergere”, e non per evitarla, avrebbe potuto allora come oggi.
Quanti davvero lo fanno in Italia? Quanti lo sanno? “Noi non lo sappiamo”, dicono dall’Agenzia delle Entrate “perché a livello tributario non ci interessa l’oggetto della professione ma che, laddove si producano redditi e ricchezze, che questi siano assoggettati a tassazione secondo la legge”. Punto. Scatta una segnalazione di un qualche tipo ad altre autorità? “No, la prostituzione non è un reato”. Punto. Quanto vale la prostituzione”? Per l’Istat ha un valore aggiunto pari a 3,6 miliardi di euro (poco meno del 25% dell’insieme delle attività illegali) e porta consumi per circa 4 miliardi di euro. Soldi che sfuggono sistematicamente allo Stato che, non promuovendo strumenti di emersione, fa in modo che il mestiere più antico del mondo resti anche il più conveniente perché esentasse, a beneficio dell’economia criminale che se ne nutre. E permette poi alle Efe Bal di prenderci un po’ tutti in giro, intestandosi la battaglia per pagarle, senza averne mai versata una.