Bello e dannato. Ha amato uomini e donne, bianchi e di colore. Ha divorato quell’atmosfera effervescente della New York underground anni ’70, incubatrice della Pop Art. Consuma marijuana e LSD, nell’86 gli diagnosticano l’Aids, muore a soli 42 anni e diventa una leggenda. Adesso il Madre di Napoli dedica a Robert Mapplethorpe, uno dei più geniali fotografi del XX secolo, una retrospettiva Coreografia per una mostra.

I curatori Laura Valente e Andrea Valliani, rispettivamente presidente e direttore del Museo di Donnaregina, hanno allestito una magnifica performance fatta di coreografie inedite. Un erotizzante dialogo (che tanto sarebbe piaciuto a Mapplethorpe, oh yes) con ballerini, a torso nudo, bicipiti in bella mostra e glutei al vento, che sembrano schizzare fuori dalle foto e, gomito a gomito, interagiscono con il pubblico, si mescolano, si dimenano, si intrecciano sulle note vibranti e rock di Patty Smith, il primo grande amore di Robert. Chi non vede sbircia sull’iPhone di chi sta davanti, è tutto un alzare di braccia per catturare l’elettricità della danza. Poi il pubblico è invitato a entrare, per una full immersion nell’arte di Mapplethorpe, in un’accecante White room e nella Dark room, fatta di gemiti e sospiri sensuali.

Alle pareti 160 scatti iconografici, un’auto celebrazione di sua maestà il corpo umano: gambe muscolose da super macho in equilibrio su scarpette da danza con la punta, corpi nudi e statuari avvinghiati a eteree ballerine in tutù. Viso velato, bocca scoperta e allusivamente socchiusa. Potere al dettaglio: attributi maschili enfatizzati,  pose statiche e stilizzate in contrasto con delicate composizioni floreali, orchidee, gigli e cactus con espliciti riferimenti agli organi sessuali.

In un’intervista del 1988, un anno prima della sua morte, l’artista dichiarò: “Sto cercando l’imprevisto. Sono alla ricerca di cose che non ho mai visto prima…Sento l’obbligo di farlo”. È questo l’incipit che i curatori hanno tenuto a mente, coinvolgendo e appassionando un pubblico di giovani influencer, quelli che solitamente non vanno alle mostre, quelli che solitamente non si mettono in fila per entrare in un museo. La trasgressione di Mapplethorpe fa audience con i selfie. E a sorpresa arriva anche il Presidente della Camera Roberto Fico a braccetto con il governatore De Luca.

Cambio di scena: al Teatro San Carlo si alza il sipario su una tragedia (quasi di shakespeariana memoria), la tosta Káťa Kabanová del cecoslovacco Leoš Janáček, figlio della grande cultura slava, e messa in scena dalla Staatsoper di Amburgo. Il fil rouge sta nel sospiro di Kát’a, un grido di libertà: “Perché gli uomini non volano…”. E la superlativa coreografia è volutamente claustrofobica: una scatola con pareti che si aprono e si chiudono. Il messaggio è universale e attualissimo: conflitto tra mondo interiore e apparenze sociali. “Tutti noi uomini abbiamo un nostro universo personale che vorremmo ma non osiamo tirar fuori perché la società impone comportamenti e modi di porci…( dal verbo porgere ma si presterebbe anche per lettura in termini suini…)”. Sono le parole della regista Rebecca Stanzeld. E, Kát’a, condannata dal bigottismo sociale per il suo adulterio, si getta nel fiume Volga.

Instagram januaria_piromallo

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