Depositate le motivazioni della sentenza arrivata con il rito abbreviato per due mediatori. La "sequenza degli eventi descritti" "e il contenuto delle comunicazioni analizzate non lascia perciò alcun dubbio sul fatto che l’intera procedura di acquisto di Opl 245 da parte di Eni sia stata costellata dall’inizio e per tutta la sua durata da un’impressionante sequenza di anomalie". Il gruppo: "Nostro operato corretto. Totale fiducia nei giudici"
Una corruzione pagata con un miliardo e 92 milioni per poter acquisire un immenso blocco petrolifero in Nigeria. Un paese dove “tutti volevano le tangenti e non si riusciva mai a concordare un prezzo sul contratto perché la cifra delle tangenti continuava a cambiare sempre” come aveva spiegato il 21 maggio 2013 all’Fbi Ednan Agaev, uomo d’affari russo, ex ambasciatore di Mosca in Colombia. Uno dei sei intermediari – tra cui anche Luigi Bisignani – entrati nella intricata storia, ricostruita dalla procura di Milano, per permettere all’Eni di conquistare il giacimento Opl 245. Un’inchiesta con una lunga serie di personaggi – manager Eni, Shell, pubblici ufficiali nigeriani, uomini d’affari e imprenditori – dove il gruppo italiano (che con quello olandese doveva dividersi il 50% dei diritti di esplorazione del giacimento) diventa vittima esso stesso perché alcuni suoi manager hanno aumentato il prezzo per ottenere la “restituzione in nero di una consistente somma di denaro, nell’ordine di 50 milioni di dollari, da spartirsi tra loro”. C’è questo, ma molto altro nelle 314 pagine delle motivazioni della sentenza con il rito abbreviato, firmate dal giudice per l’udienza preliminare Giusy Barbara, nei confronti di due intermediari Obi Emeka e Gianluca Di Nardo, condannati a 4 anni.
“Procedura acquisto Opl costellata da anomalie”
Il giudice ricorda che il management di Eni “disponeva anche di denaro pubblico, considerato che il maggiore azionista della società è lo Stato italiano” e, dopo la ricostruzione degli accordi (leggi l’articolo di G. Barbacetto) e anche la qualità di personaggi in campo, chiosa che la “sequenza degli eventi descritti” e “il contenuto delle comunicazioni analizzate non lascia perciò alcun dubbio sul fatto che l’intera procedura di acquisto di Opl 245 da parte di Eni sia stata costellata dall’inizio e per tutta la sua durata da un’impressionante sequenza di anomalie, che per quantità e qualità dei manager coinvolti necessariamente devono essere state avallate dai vertici della società e non trovano alcuna logica giustificazione se non negli illeciti accordi spartitori sottostanti, prospettati dalla pubblica accusa”. L’affaire Opl 245 inizia nel 2011, quando Eni e Shell acciuffano la concessione di un super-giacimento. Ma i soldi, quello che banalmente può essere considerato un fiume di denaro, confluiscono sui conti privati della società Malabu, di cui è socio occulto l’ex ministro nigeriano del petrolio Dan Etete. Denaro che vaga tra Libano e Svizzera fino a tornare in Nigeria, nei conti di ministri e politici locali che si intascano almeno 523 milioni.
Una stecca pagata, secondo l’accusa e ora anche il giudice, con i buoni uffici di Bisignani e Di Nardo, di Obi e Agaev. Un modello che cambia per rendere il pagamento della tangente meno visibile. È da Londra che la storia arriva a Milano, quando Obi cita in giudizio Etete per non avergli pagato la commissione, l’autorità britannica gli dà ragione, ingiungendo all’ex ministro di versare 110 milioni che arrivano in Svizzera. Dove vengono sequestrati dai pm milanesi e nei mesi scorsi confiscati dal gup. Il verdetto in abbreviato dello scorso settembre è la prima sentenza a Milano sulla vicenda. Una a decisione era arrivata all’indomani dell’assoluzione della compagnia petrolifera italiana, del suo ex ad Paolo Scaroni e dell’attuale numero tre, Antonio Vella, per la presunta maxi bustarella versata in cambio di commesse in Algeria per la quale, invece, sono stati condannati Saipem e i suoi ex manager. E le cui motivazioni sono attese in questi giorni.
“Descalzi prono di fronte alla pretese di Bisignani”
In questa vicenda l’attuale amministratori delegato Claudio Descalzi, che all’epoca dell’acquisizione di Opl 245 era “il numero 2 della più importante azienda italiana nonché primaria società politica mondiale”, sarebbe stato “prono di fronte alle pretese di Luigi Bisignani, cioè di un privato cittadino il cui nome era già emerso in alcune delle inchieste più scottanti e note della storia giudiziaria italiana”. Descalzi è tra gli imputati in dibattimento ed è stato rinviato a giudizio un anno fa insieme a l’ex ad Paolo Scaroni e Bisignani stesso. “Che poi ciò sia accaduto per asserita – dallo stesso Descalzi – piaggeria, verso un uomo fortemente legato all’amministratore delegato di Eni Paolo Scaroni o per altre inconfessabili ragioni è un dilemma che non spetta a questo giudice risolvere non essendo Descalzi e Bisignani imputati in questo procedimento celebrato con rito abbreviato ed essendo la loro posizione ancora sub judice davanti al Tribunale di Milano”. Ma non solo: secondo il giudice è’ “provato, al di là di ogni ragionevole dubbio, che effettivamente nell’ambito dell’operazione di acquisto della licenza di prospezione petrolifera Opl 245 alcuni manager del gruppo petrolifero italiano abbiano progettato e verosimilmente realizzato” il “piano criminoso di incrementare il prezzo pagato da Eni in modo da ottenere” la “restituzione in nero di una consistente somma di denaro, nell’ordine di 50 milioni di dollari, da spartirsi tra loro“. “L’individuazione dei singoli responsabili di questa condotta illecita, perpetrata ai danni di Eni dai suoi dirigenti coinvolti nell’affare Opl 245 – scrive il gup – non compete a questo giudice, non essendo costoro imputati in questo procedimento celebrato con rito abbreviato”.
“Ex ministro con tangente acquisito immobili, aerei e auto”
Il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro nelle imputazioni dell’inchiesta, infatti, hanno indicato anche le cosiddette “retrocessioni” della presunta tangente “ad amministratori e dirigenti Eni”, facendo riferimento a 50 milioni di dollari in “contanti” che sarebbero stati consegnati “presso la casa di Roberto Casula”, all’epoca capo della Divisione Esplorazioni di Eni, ad Abuja, in Nigeria. Quasi un milione di euro, poi, l’8 maggio 2012 sarebbe stato versato a Vincenzo Armanna, anche lui ex dirigente Eni nell’area del Sahara. E della presunta mazzetta da oltre un miliardo “circa 250 milioni di dollari” sarebbero stati “incamerati” dall’ex ministro Etete per comprare “immobili, aerei, auto blindate“. I due presunti mediatori condannati, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, secondo il gup, avrebbero avuto un “ruolo essenziale nella realizzazione del complessivo disegno criminoso, di cui le retrocessioni in questione costituiscono solo una parte della storia”. Il giudice in un altro passaggio delle motivazioni parla della “ennesima conferma della consapevolezza da parte dei vertici di Eni – si rammenti che il destinatario finale del report di Casula è Descalzi (è l’inciso del gup, ndr) – del fatto che il prezzo pagato dalla società per Opl 245 non rimarrà al governo federale”. Viene, invece, “corrisposto a Malabu (cioè a Etete) per suo tramite” e il governo nigeriano “si limita a fare da ‘scudo’ e da ‘garante’ in un’operazione negoziale che nella sostanza serve solo a dissimulare la vendita della licenza sul blocco petrolifero da Etete a Eni e Shell”. Malabu, secondo l’accusa, sarebbe stata la società ‘veicolò per far arrivare le tangenti ai politici nigeriani.
“Danno di immagine e collettività nazionale”
Per il giudice l’affaire da 1 miliardo e 92 milioni di dollari “appare di inaudita gravità” non solo per “l’entità della somma di denaro” usata per corrompere i pubblici ufficiali del Paese africano ma anche perché lo stato nigeriano “è stato depredato di uno dei suoi beni di maggior valore. Nell’ottica italiana appare poi ancora più grave per il coinvolgimento della principale società del nostro Paese, di cui lo stesso stato italiano è il maggior azionista, con un evidente danno anche di immagine all’intera collettività nazionale”. Per quanto riguarda Di Nardo e Obi Emeka “sono stati ab origine parti fondamentali del patto corruttivo e la loro successiva estromissione dalla fase esecutiva non rileva ai fini della consumazione del reato e dell’affermazione della loro colpevolezza”. Per il caso Eni-Nigeria sono imputati con rito ordinario anche altre 11 persone. Per il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il pm Sergio Spadaro, titolari dell’indagine, sarebbe stato Scaroni a dare “il placet alla intermediazione di Obi”, presunto mediatore della maxi tangente, “proposta da Bisignani” e Descalzi, all’epoca dg della divisione Exploration&Production Eni, sarebbe stato invitato “ad adeguarsi”. Sia Scaroni che Descalzi, secondo l’accusa, avrebbero incontrato “il presidente” nigeriano Jonathan Goodluck “per definire l’affare”.
Eni: “Nostro operato corretto”
Eni “ribadisce la correttezza del proprio operato nell’acquisizione di OPL 245 in Nigeria e di avere trattato e concluso l’operazione direttamente con il Governo nigeriano”. In una nota la società, che si riserva di leggere e valutare le motivazioni della sentenza relativa alla condanna dei signori Obi e Di Nardo nella loro versione integrale, “conferma la propria totale fiducia nell’operato dei giudici del dibattimento che si sta svolgendo presso la settima sezione dello stesso Tribunale- Eni – prosegue la nota – ritiene che in tale sede verrà effettuata una ricostruzione dei fatti completa ed esaustiva, rispetto a quella di cui disponeva il giudice del rito abbreviato, che poteva utilizzare solo le acquisizioni della pubblica accusa. Eni è certa che tale ricostruzione potrà definitivamente consentire di provare la totale estraneità della società a qualsiasi ipotesi corruttiva“.