di Alessandra Ungaro*

Assistiamo negli ultimi anni a numerosi processi per morte di lavoratori che hanno prestato la propria opera manuale o intellettuale presso siti industriali e in cicli di lavorazione caratterizzati da criticità “ambientali”. I reati contestati, che vanno dall’omicidio colposo plurimo al disastro ambientale e sanitario colposo, si basano anche su aspetti peculiari dell’organizzazione interna aziendale. Infatti il rappresentante dell’Ente, provvedendo all’organizzazione dei fattori della produzione per il conseguimento di un utile, non può sottrarsi al dovere di assicurare innanzitutto l’integrità delle energie lavorative fisiche e mentali di cui dispone il dipendente.

In particolare, per i casi che hanno comportato esposizione a fibre di amianto, recentemente la Suprema Corte ha analizzato il profilo oggettivo dell’inosservanza delle norme cautelari e quello soggettivo della prevedibilità e prevenibilità dell’evento, riproponendo il paradigma normativo della salubrità dei luoghi di lavoro richiamato nel principio homo ejusdem professionis et condicionis: la persona scrupolosa opera secondo i criteri della prevedibilità e dell’evitabilità di tutte le conseguenze dannose dell’evento che possono derivare da una condotta pericolosa per la salute o per altri beni tutelati dall’ordinamento.

Nella sentenza della Cassazione del 18 maggio 2018, relativa ai reati per omicidio colposo e lesioni colpose nei confronti di alcuni lavoratori esposti alla nocività dell’amianto dagli anni 60 agli anni 80, contestati a soggetti apicali, si afferma che tutte le fibre d’amianto, indipendentemente dalla dimensione, possono cagionare patologie tra le quali l’asbestosi, il mesotelioma e i tumori polmonari.

La posizione di garanzia ricoperta da alcune figure con funzioni apicali e dirigenziali è risultata ascritta a scelte gestionali inadeguate ad affrontare il rischio amianto nelle lavorazioni, carente ricerca di materiali alternativi, omessa formazione, mancata adozione di una politica aziendale di tutela ambientale organica ed efficace, unitamente all’insufficiente vigilanza sull’efficacia del sistema di sicurezza aziendale, riorganizzato nel 1967.

Una seconda sentenza del 2018, relativa all’esposizione continuativa a fibrocemento contenente amianto, analizza il tema dell’obbligo del giudicante di valutare le ipotesi formulate e la loro “comune accettazione nella comunità scientifica”. Lasciando ai più competenti le tematiche scientifiche, in entrambe le sentenze si osserva il richiamo alla normativa vigente che, in linea con quanto oggi espressamente previsto dal decreto legislativo 81/2008 trasfuso anche nel decreto legislativo 231/2001, obbliga a garantire ai lavoratori un ambiente di lavoro salubre senza esposizione a polveri e ad agenti nocivi.

Della pericolosità dell’amianto, tuttavia, e della necessità di tutelare i lavoratori si ha consapevolezza sin dall’emanazione del Regio Decreto n. 442 del 14.06.1909, poi con la legge n. 455 del 1943 si estese all’asbestosi l’assicurazione obbligatoria per le malattie professionali. La disciplina antinfortunistica, inoltre, si sviluppa dall’art. 2087 del Codice Civile e dagli artt. 32 e 41 della Costituzione, con vasta legislazione speciale emanata a partire dagli anni 50, volta a proteggere i lavoratori dalle polveri nocive negli ambienti di lavoro. Infatti, il Dpr 19.03.1956 n. 303 prevedeva tra gli altri la difesa contro le polveri (nocive), adottando i provvedimenti atti a impedirne – o a ridurne, per quanto possibile – lo sviluppo e la diffusione nell’ambiente di lavoro. La normativa diretta al controllo dell’utilizzo di sostanze nocive da tempo, dunque, deve trovare idonea applicazione mediante l’adozione di dispositivi di protezione individuale dei lavoratori e altre misure di protezione collettiva/organizzativa, favorite da adeguata informazione e formazione dei lavoratori.

Alla luce di quanto precede sembra quasi inverosimile che, in procedimenti penali più recenti, emerga persino la copiosa distribuzione di dividendi ai soci, rispetto a investimenti evidentemente insufficienti per la messa in sicurezza degli impianti. La gravità di fatti come questi appare spesso sproporzionata, anche in ragione della durata nel tempo in aziende che, per dimensione e reputazione, si presume abbiano impegnato le migliori risorse umane nelle governance societarie e tutte le risorse finanziarie necessarie per un’adeguata prevenzione e gestione dei rischi. Evidentemente così non è, anche a causa di quel capitalismo di relazione che è stato, talvolta, più attento alle alleanze dei posti di comando che alle best practice aziendali e alle prescrizioni normative.

* Commercialista e revisore legale, con specifica esperienza aziendale nel controllo di gestione, valutazione dei rischi e modelli di compliance 231/2001. Consulente tecnico del Tribunale di Milano e della Procura della Repubblica. La passione per l’etica e le best practice mi ha permesso di coniugare competenze tecniche e aspirazioni personali in un percorso sempre nuovo e ricco di stimolanti difficoltà nel quale, con rinnovato entusiasmo, cerco di affermare, condividere e testimoniare il mio contributo alla cultura della legalità.

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