“Nel depistaggio anche elementi veri da fonti rimaste segrete” – “Il depistaggio viene compiuto attraverso elementi veri che la squadra investigativa Falcone e Borsellino ha da fonti che non rivelerà mai“, ha sostenuto sempre Grasso davanti alla commissione. Una valutazione, quella dell’ex procuratore nazionale antimafia, legata alla “creazione” del falso pentito Scarantino. “La domanda è se Scarantino possa essere stato anche imbeccato nel fornire alcuni elementi di verità“, ha chiesto Fava a Carmelo Petralia, pm a Caltanissetta all’epoca delle prime indagini su via d’Amelio. “Questo è il cuore del problema. È chiaro che, mi permetta un se, se Scarantino veramente non c’entra niente, il fatto che lui abbia reso vari elementi di verità, ci deve fare pensare che ovviamente gli sono stati forniti. Il punto è chi li ha forniti, li ha forniti perché a sua volta li aveva, questo è quello che adombra la sentenza. Come si dice a Palermo: ‘Vesto il pupo”.
Il depistaggio viene compiuto attraverso elementi veri che la squadra investigativa ha da fonti che non rivelerà mai
Così vestirono il “pupo” – “Vestire il pupo” vuol dire rendere presentabile il balordo della Guadagna: provare a costruirgli una credibilità da mafioso. Spiega sempre Grasso: “Dalla ricostruzione che si è fatta Scarantino viene arrestato il 24 settembre 1992. Pochi giorni prima avevano acquisito le dichiarazioni di Luciano Valenti e di Candura Salvatore, secondo le quali avevano rubato la macchina su commissione di Scarantino ed era stata consegnata la macchina a Scarantino. Poi Scarantino viene trasferito nel carcere di Busto Arsizio e nella cella accanto gli mettono Andriotta (l’altro falso pentito). Lì nasce la costruzione specifica del depistaggio con una dichiarazione di Andriotta che riferisce delle cose come dette dal vicino di cella Scarantino. Se si esaminano tutti i colloqui investigativi in carcere di Arnaldo La Barbera e di alcuni funzionari, si può ricostruire che ogni volta che Andriotta dichiara qualche cosa, c’è nello stesso giorno o nel giorno precedente un colloquio investigativo”. Una testimonianza che porta la commissione a scrivere: “Alla luce di ciò che si rivelerà essere la collaborazione di Scarantino, ovvero una collezione di suggestive menzogne, non si può non immaginare che quei colloqui – sia prima che dopo il cosiddetto “pentimento” – siano serviti anche a istruire il falso pentito”.
Il servizi e Contrada indagavano – Il cuore dell’indagine dell’Antimafia è rappresentato da “un’anomala, significativa e determinante (negli esiti) collaborazione tra la procura di Caltanissetta e i vertici dell’allora Sisde“. Cioè la richiesta di partecipare alle indagini che l’allora procuratore Giovanni Tinebra fa a Bruno Contrada, all’epoca numero due dei servizi: in quel momento è già indagato dalla procura di Palermo per concorso esterno a Cosa nostra e sarà arrestato nel Natale di quello stesso anno. “Il giorno dopo la strage – annota l’organo parlamentare – Tinebra convoca nel proprio ufficio il dottor Bruno Contrada e gli chiede di collaborare direttamente alle indagini con la procura di Caltanissetta”. Ma le procure non possono chiedere ai servizi di intelligence di occuparsi di indagini. E infatti quella di Tinebra per Fava è “una forzatura investigativa, normativa e procedurale di cui molti (i livelli apicali delle forze di polizia e di sicurezza) sono perfettamente consapevoli”. “La negazione di quello che normalmente è il lavoro di intelligence, e che rimane sempre dietro le quinte”, la definisce Gozzo. Ma come è possibile che Contrada aiuti la procura di Caltanissetta a indagare sulla strage Borsellino mentre a Palermo nutrono già sospetti sulla sua contiguità ai clan? Francesco Paolo Giordano, procuratore aggiunto di Tinebra a Caltanissetta, ha raccontato alla commissione: “Io all’epoca non fui a conoscenza di questa richiesta da parte del dottor Tinebra di compulsare i servizi. Sapevo che il procuratore Tinebra aveva una consuetudine, diciamo, di frequentazione col Sisde. So che aveva la possibilità di disporre del volo Cai, tuttora credo gestito dai Servizi, poi ricordo che periodicamente lo veniva a trovare una persona dei Servizi di Palermo o di Caltanissetta, e io lo vedevo nell’anticamera, noi avevamo un anticamera comune… Poi veniva Piraneo che fu nominato referente (del Sisde) di Caltanissetta… quindi diciamo lui aveva questo rapporto così”.
È certo il ruolo che il Sisde ebbe nell’immediata manomissione del luogo dell’esplosione”
“Dentro il Sisde, fuori Borsellino” – Insomma per indagare sulla strage Borsellino si decise di chiedere l’aiuto dei servizi segreti di Contrada, che era già sospettato di vicinanza ai clan (la sua condanna sarà annullata dalla Cedu nel 2015). Si decise di dare fiducia al Sisde, che nell’ottobre del ’92 fornì la sua relazione per accreditare a Scarantino un curriculum criminale di rango. “Si decise una scorciatoia investigativa che produrrà – due anni più tardi – il finto pentimento di Scarantino e il definitivo travisamento della realtà dei fatti”, scrive la commissione. Tutto questo mentre nessuno chiese mai di interrogare Paolo Borsellino sulla strage di Capaci. Sì, perché era sempre la procura di Caltanissetta a indagare sull’omicidio Falcone. Ed è noto come su quel tema Borsellino si considerasse “un testimone“. Ma in quei 57 giorni nessuno decise d’interrogarlo. E quando ci sarà da investigare sulla sua morte si affideranno le indagini a un agente dei servizi che sarà poi condannato per concorso esterno a Cosa nostra. “Va sottolineato che quella scelta (dentro il Sisde, fuori Borsellino) resta una pagina oscura e una gravissima responsabilità che sarebbe riduttivo attribuire solo all’allora capo della procura di Caltanissetta. Del ruolo improprio del Sisde, a fianco di quella procura, molti seppero. E tutti tacquero. Come tacquero in quei 57 giorni in cui si ridusse il contributo di Paolo Borsellino a qualche chiacchiera informale a pranzo tra lui e un giovane sostituto applicato a Palermo”. Per capire cosa avesse da dire Borsellino sulla strage di Capaci, tra il 23 maggio e il 19 luglio del 1992 la procura di Caltanissetta decise di mandare un giovane magistrato “a Palermo per fare da ufficiale di collegamento”. Ma perché non interrogare direttamente Borsellino? È solo la prima domanda di una serie di quesiti successivi. Che si moltiplicano dopo il botto di via d’Amelio. Interrogativi che dopo 26 anni, dieci processi e una serie di indagini archiviate, sono in gran parte senza risposta. La conclusione di Fava è amara: “Resta un vuoto di verità su chi ebbe la regia complessiva della strage e del suo successivo depistaggio. E quale sia stato – nel comportamento di molti – il labilissimo confine fra colpa e dolo, svogliatezza e intenzione, distrazione e complicità”.
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