Fare business a Gaza. Quella che sembra una follia partorita dalla mente di chi non ha idea di cosa voglia dire gestire un’azienda, ma anche vivere e lavorare in una delle aree più povere e rischiose al mondo, soprattutto per una compagnia israeliana, è invece uscita dalla bocca di Daniel Birnbaum, amministratore delegato di SodaStream, azienda che produce gasatori domestici di bevande. Una scelta, quella comunicata giovedì durante la Globes Business Conference di Gerusalemme dal Ceo israeliano, figlio di un sopravvissuto all’olocausto, nata dalla volontà di “dare lavoro alle persone di Gaza, un vero lavoro, perché dove si vive in prosperità si vive in pace”.
La decisione dell’azienda è destinata però a far discutere, come già successo in passato. Nel 2015, in seguito alle pressioni del movimento di boicottaggio economico di Israele (Bds), è stata costretta a chiudere lo stabilimento nella colonia israeliana in Cisgiordania di Ma’ale Adumim, licenziando la maggior parte dei 600 operai palestinesi impiegati. Pochi mesi dopo, con l’idea di dare lavoro a mille profughi siriani nella cittadina di Rahat, nel sud della Siria, l’azienda è stata accusata di farsi pubblicità sulla pelle delle popolazioni afflitte dalla guerra.
L’amministratore delegato della compagnia, acquistata in estate dalla PepsiCo per circa 3,2 miliardi di dollari, non ha voluto dare ulteriori informazioni riguardo al piano di costruzione e avvio di quello che dovrebbe diventare il nuovo stabilimento di Gaza. Birnbaum ha solo sottolineato l’intento umanitario che avrebbe mosso i vertici dell’azienda che da anni sta cercando di insediarsi nei territori palestinesi. “Ѐ arrivato il momento di agire in favore di chi ha bisogno”, aveva dichiarato lo stesso Birnbaum nel 2015, manifestando l’intenzione di avviare il progetto nella cittadina di Rahat.
Questo tipo di politiche portate avanti dalla compagnia le sono costate, negli anni, le accuse di sfruttamento di manodopera a basso costo da parte del movimento globale Bds (Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni, ndr) e milioni di dollari dopo che diversi Paesi, anche europei, hanno deciso di ritirare i loro prodotti dal mercato perché provenienti da fabbriche operanti nei territori occupati. L’ultima trovata del Ceo di SodaStream dovrà scontrarsi non solo con le probabili resistenze del movimento di boicottaggio, ma anche con quelle dell’organizzazione armata palestinese Hamas che controlla la Striscia di Gaza dal 2006.
Come nei precedenti di questo scontro tra i dirigenti dell’azienda e le organizzazioni filo-palestinesi favorevoli alle azioni di boicottaggio nei confronti della multinazionale, anche quest’ultimo annuncio è destinato a polarizzare la discussione. Da una parte, coloro che benediranno l’apertura dello stabilimento, nonostante il rischio per la sicurezza dei lavoratori, che darà lavoro a centinaia, forse migliaia di abitanti di una delle aree più densamente popolate e povere del mondo e che, così, potrebbe contribuire a far uscire la popolazione dall’isolamento, causato anche dalle politiche di blocco dei valichi imposte da Israele ed Egitto, della più grande prigione a cielo aperto della Terra.
Dall’altro, quelli che, invece, vedranno nell’iniziativa una nuova operazione di marketing, di brandwashing, sulla pelle della popolazione palestinese afflitta dalle privazioni imposte dallo Stato d’Israele e sfruttata da SodaStream per produrre a basso costo, delegittimare le istituzioni palestinesi e favorire la presenza israeliana nei loro territori.