Mentre l’approvazione della manovra finanziaria 2019 del governo ha vagolato in un andirivieni di annunci e rimandi che avrebbe fiaccato persino il console Quinto Fabio Massimo detto “il temporeggiatore” – spia del palese disaccordo tra gialli e verdi riguardo alle reciproche concessioni su pezzi significativi (irrinunciabili?) dei rispettivi programmi, forse segnale di avvicinamento del punto di rottura nell’attuale alleanza -, imperversano i commenti dei sostenitori delle squadre in campo nel match tra Roma e Bruxelles.
Come sempre accade nei derby calcistici, tifo del tutto acritico che sostituisce il principio di realtà con scrosci di partigianeria. Un solo punto fermo: la blandizia verso il proprio target di clienti, in cui l’argomentazione tende rapidamente a svicolare in propaganda. E nessuno dei giocatori in campo ne risulta esente. Tanto da indurre nell’osservatore estraneo alle poste in gioco l’irresistibile voglia di sventolare un cartellino giallo collettivo. Per il fallo di simulazione del torto gabellato da ragione.
Difatti i supporter della Commissione Ue mistificano palesemente conclamando una sorta di imparzialità della stessa, quando è risultato evidente il retro-pensiero che continua a imperversare tra Strasburgo e Bruxelles. Per cui l’unica risposta possibile alla crisi deve essere quella politica di austerity che ormai da tempo ha palesato il proprio volto assassino.
Così come ora appare risibile l’argomento degli stigmatizzatori del passo indietro di Giuseppe Conte e compagnia, affermando che l’attuale legge di Bilancio (di cui ancora si continuano a ignorare i contenuti effettivi) sarebbe stata scritta “sotto dettatura di Bruxelles”, quando è noto che i passati governi italiani scrivevano le loro manovre con il copia-incolla delle missive dell’Unione: l’ultimo che può permettersi di rimbrottare presunti “sovranisti senza sovranità” è proprio il fantasmino in trasferta belga Paolo Gentiloni. Per non parlare del rieccolo Mario Monti, questa mediocre imitazione di Quintino Sella su spartito scritto dalle tecno-burocrazie. Già distintosi quale censore della Grecia, dimenticando il proprio personale ruolo in quella Goldman Sachs i cui maneggi in combutta con la Banca Centrale greca sono alla base della passata catastrofe contabile ellenica, a cui si è impiccato Alexis Tsipras.
Ma anche i supporter del governo italiano si arrabattano nel dimostrare l’indimostrabile. E cioè validare la logica che ci ha portato in rotta di collisione con tutti i partner europei: un accrocco che pretendeva di giustificare gli sforamenti presumendo una ripartenza dell’economia nazionale tale da riassorbirli. Dall’ipotesi fantasiosa di crescita all’1,5% al voler presentare come reddito di cittadinanza nient’altro che l’ennesimo sussidio alla disoccupazione. Nel presumere che far circolare un po’ di miliardi dovrebbe rivitalizzare un sistema produttivo in via di spegnimento quale il nostro, a prescindere da effettivi investimenti a supporto di politiche industriali per lo sviluppo.
Insomma, nessuno dei protagonisti si è rivelato all’altezza di questo difficile momento storico. Iniziando da un Jean-Claude Juncker, che doveva ridare l’anima smarrita all’Europa quando, da leader del Lussemburgo, si distinse nel creare paradisi fiscali per l’evasione dei grandi gruppi industriali e finanziari del continente. E si taccia di Pierre Moscovici, spudorato allestitore di scappatoie per un Emmanuel Macron in caduta libera nei consensi presso l’opinione pubblica francese, ma da cui dipende un suo futuro politico alle prossime elezioni di maggio. Il personaggio che – come un marchese del Grillo dell’Esagono – ha l’improntitudine di sproloquiare “la Francia è la Francia”. E l’Italia “non è un c…”? Anche se gli europarlamentari che abbiamo eletto si sono sempre distinti per assenteismo, inettitudine e totale mancanza di competenze linguistiche. Pessimi ambasciatori del nostro Paese, mentre altri – ad esempio gli spagnoli – si giocavano infinitamente meglio l’opportunità europea.