Così a Natale ci si ritrova intorno a un tavolo. Vecchi amici che hanno preso strade diverse: un dipendente pubblico, un disoccupato, un imprenditore che ha avuto fortuna e un avvocato di un grande studio legale. Si comincia a parlare con cautela, perché, si sa, la vita porta su posizioni anche lontane. Si è partiti insieme, magari sui banchi di scuola, condividendo i viaggi, la scoperta del mondo, gli amori. Ma poi la vita allontana, sono diverse le idee. Diversa è stata anche la fortuna. Però, parola dopo parola, ci si accorge che un pensiero lega tutti: la pesantezza, che non dipende soltanto dal pranzo di Natale. E’ una sensazione di oppressione, di asfissia. Mancano le idee, gli ideali. Non c’è più nessun senso del futuro.

E sarà pure diverso l’oggetto della speranza, ma c’è una cosa che unisce e viene ancora prima: il bisogno di sperare.

Allora parlando ci si accorge che tutti danno un nome, un volto, a questa Italia plumbea: Matteo Salvini.
Un’Italia dove non ci si prende le proprie responsabilità, ma si sanno solo attribuire colpe (agli altri, ovviamente).
Un’Italia dove si sbandiera una finta uguaglianza non per cancellare i (propri) privilegi, ma per ignorare i meriti (degli altri).
Un’Italia che non riesce a darsi un volto, ma sostiene di difendere la propria identità.
Un’Italia che vuole fare la voce grossa, ma non ha niente da dire.
Un’Italia che dimentica la sua più grande ricchezza: l’umanità.
Eccolo il campione di questa Italia, il selfie made man. Lui si fa sempre fotografare: ai funerali delle vittime del Ponte o nel giorno in cui a Pesaro viene ucciso un uomo. Gli altri crepano e lui twitta.
Noi restiamo senza futuro mentre lui si mangia la Nutella.

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