Come ogni anno di questi tempi, arriva il solito triste bilancio sui suicidi in carcere. Quante persone si sono tolte la vita nelle carceri italiane in questo 2018? Sono state 65, più di tutti gli anni scorsi fino al 2011 quando, ancora in piena emergenza sovraffollamento, furono 66. Non voglio scendere nei dettagli del conteggio, che mi paiono davvero poco interessanti, con il Ministero che chiede di calare di qualche numero perché forse non intende calcolare quale suicidio il decesso del signore di 75 anni che si è lasciato morire di fame nel carcere di Paola o quelli dei due detenuti morti per asfissia da gas, piuttosto imputati a tentativi di sballo.

Né voglio dare colpe a condizioni di vita banalmente inadeguate (non ci si suicida perché la doccia del bagno è ammuffita) o a mancati controlli, secondo una logica che vorrebbe il povero agente di sezione responsabile di scelte tanto intime e disperate. Vorrei solo che ci fermassimo un momento a riflettere sulle persone che stipiamo nelle nostre galere e per le quali invochiamo quella certezza della pena di cui tanto parla chi poco conosce. Uno degli ultimi suicidi, avvenuto in Sicilia, ha riguardato un uomo di 47 anni arrestato alla fine dello scorso settembre. Era accusato di rapina impropria. L’uomo veniva chiamato “il ladro di merendine” o anche “serial kinder”. Aveva rubato merendine in un supermercato di Catania. Non era la prima volta che lo faceva. Certo, non si rubano le merendine. I nostri genitori ce lo dicevano quando eravamo piccoli. Ma valeva la pena di rinunciare a una vita umana per usare in maniera così cieca e bieca il sistema penale e quello penitenziario? O non era più sano intervenire con politiche sociali e di sostegno, anche psicologico o psichiatrico se ce ne fosse stata la necessità, in una situazione di evidente disagio ed emarginazione?

I ladri di merendine in carcere sono la stragrande maggioranza. Basta vedere le statistiche sulla provenienza geografica, sul livello di istruzione, sul reato commesso. Buttandoli in una cella non siamo in grado di intercettarne la disperazione. Oramai i detenuti hanno superato la soglia delle 60mila unità. Nessuna attenzione individuale può essere loro garantita dal sistema. Le vite umane continueranno a sfuggire dalle maglie.

Antigone ha inviato a tutti i componenti delle commissioni Giustizia di Camera e Senato una proposta di legge volta a prevenire i suicidi in carcere. Se la prevenzione primaria è quella di riservare la detenzione alle situazioni che davvero la meritano, una volta dentro si può però agire sui seguenti due fronti: innanzitutto, il potenziamento dei contatti con gli affetti esterni. Il senso di solitudine in carcere è paradossalmente estremo. Se la pena consiste nella limitazione della libertà, non si vede perché a essa bisogna aggiungere la lontananza forzata da genitori, coniuge e figli o la privazione totale di una vita sessuale. La proposta di legge di Antigone prevede un aumento del tempo da trascorrere con i propri cari, anche in modalità riservate. In secondo luogo, la riduzione al minimo del ricorso all’isolamento, tanto quello giudiziario che quello disciplinare. È nelle celle di isolamento che avviene il maggior numero di suicidi. L’isolamento fa male alla salute mentale e troppe volte in passato ha nascosto abusi e violenze.

Vari parlamentari ci hanno risposto dicendosi disponibili a discutere le proposte e a portarle in Parlamento. Ci auguriamo si possa fare in tempi brevi. Ci auguriamo che quando ragioneremo sul bilancio del 2019 questi 65 suicidi saranno solo un drammatico ricordo.

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